Storie tra le cui pieghe non mancano sviluppi imprevedibili, inattesi, sconcertanti e in cui affiorano prepotenti, incontenibili interrogativi.
Il suoi racconti mettono in scena situazioni o evoluzioni di psicologie in una progressione fulminea e sono dotati di notevole forza centripeta, centrifuga, compressa, deflagrante.
La sua scrittura è concreta, visiva, scultorea, incisiva. Una scrittura che elude i commenti e le didascalie (e in cui i fatti assumono un rilievo plastico e cinetico insieme).
Ho voluto fare qualche domanda a Enrico proprio sulla scrittura e sul significato ultimo dello scrivere.
(L.B. sta per Libereditor’s Blog, E.M. per Enrico Macioci)
(L.B.): Per lei che cosa significa raccontare?
(E.M.): Raccontare è per me un’esigenza fisiologica quasi come mangiare e bere. Infatti quando trascorro periodi relativamente lunghi senza scrivere il mio equilibrio psicologico ne risente. E’ come se avessi trovato un integratore spirituale insomma; il problema è che non sempre assumo l’integratore giusto – voglio dire che scrivere è una questione delicata, occorre sempre chiedersi cosa si sta scrivendo, e come, e perché; occorre sempre domandarsi con la massima onestà possibile se il tuo scrivere rappresenti perlomeno un tentativo di edificare senso o se viceversa contribuisca ad aumentare il non-senso già dilagante, imperante. Per me insomma, e senza esagerazioni, scrivere è un contributo civile nell’accezione antropologica più vasta. In tutto ciò dov’è il divertimento? Per me il divertimento è assai raro. E allora perché lo faccio? Perché sento che devo farlo.
(L.B.): Scrivere è indubbiamente un’esperienza totalizzante sia a livello fisico che mentale ed è necessario farlo ogni giorno per mantenere il ritmo, per restare concentrati… Secondo lei la scrittura può essere vista come un qualche cosa di fisico? Ha la sensazione che le parole escono dal suo corpo e non solo dalla sua mente? C’è qualcosa nei ritmi della lingua che corrispondono ai ritmi dei nostri corpi?
(E.M.): Assolutamente sì. Anzitutto perché la scrittura – specie quella in prosa – è fatica, fatica fisica tremenda. Sudi, ti stanchi, ti viene fame, ti viene mal di testa. Poi perché scrivere è una pratica, un po’ come meditare o suonare il pianoforte o allenarsi. Condivido appieno la concezione incarnatoria della scrittura che possedeva Flannery O’Connor, così bene espressa nel suo magnifico saggio Nel territorio del diavolo. Un tempo ero uno scrittore molto più astratto di adesso. Mi beavo delle “idee”. Poi, anche grazie ai suggerimenti di Giulio Mozzi, che mi consigliò d’inserire più materia, più “cose” nelle mie narrazioni, ho ficcato le mani dentro la realtà. Un romanziere non è (solo) un filosofo; deve scolpire la propria visione del mondo dentro il mondo, e porgere questo mondo al lettore, anzi scaraventare dentro questo mondo il lettore, o viceversa questo mondo addosso al lettore. Il lettore deve entrare in un posto ove senta caldo oppure freddo, attrazione oppure disgusto, gioia oppure dolore – parlo di sensazioni vere. E ciò non è possibile senza l’incarnazione appunto.
(L.B.): Scrive a mano o solo davanti a una tastiera?
(E.M.): Scrivo sulla tastiera, poi stampo una brutta copia su cui appongo delle correzioni a mano, e poi ricopio il testo con le correzioni sulla tastiera. Talvolta, se il lavoro è lungo, le correzioni a mano possono essere molto corpose.
(L.B.): Quando scrive è più interessato alla storia che racconta o al modo in cui raccontarla?
(E.M.): Durante la prima stesura m’interessa molto di più la storia, anche perché…non la conosco. O meglio la intuisco, ne intravedo la coda, sempre in fuga dietro la prima curva. Dunque mi tocca acchiapparla prima che dilegui, e per farlo debbo correre, e per correre non posso (o non riesco a) badare troppo allo stile. Aggiungo a onor del vero che lo stile si modella fin da subito quasi da sé, con un ritmo e una sintassi credibili, attorno al tema che sto trattando, come se ci avessi una sorta di pilota automatico, come se la storia fosse una donna nuda che si prova un vestito: magari non azzecca subito il colore o il taglio, ma bene o male indosserà un vestito né troppo grande né troppo piccolo eccetera. Durante la revisione o le revisioni (che possono arrivare fino a un numero imbarazzante), lo stile diventa invece la mia ossessione: in che modo posso dire nella maniera migliore possibile quello che ho già detto? E’ una faccenda chiaramente utopistica che può trascinarsi fino all’eternità.
(L.B.): Nel libro “Terremoto” mi ha colpito la sua lucidità di pensiero e come è riuscito a descrivere la desolazione, l’avvilimento, la collera, la meschinità di tanti momenti difficili che hanno messo a dura prova valori che troppo spesso si danno per scontati.
Tra le righe c’è molto della precisione e del rigore di Hemingway, ma anche dello shock filosofico e tragicomico di Bolaño…
(E.M.): La ringrazio e sono onorato per questi accostamenti. In Terremoto c’è molto Hemingway, anche perché prima di scriverlo rilessi i 49 racconti, un vero magistero di tecnica, rigore e igiene stilistica, che era ciò di cui avevo bisogno per trattare un tema così scottante e prepotente e schiacciante come il dramma del sisma. Bolaño invece allora non l’avevo mai letto, l’ho conosciuto nell’ultimo anno e mezzo ed è subito diventato uno dei miei autori prediletti. Lo considero un genio che ha innovato le strutture narrative, e forse il più originale romanziere degli ultimi quindici anni. Quindi le sue parole mi fanno ancora più piacere.
(L.B.): Secondo lei la mistificazione dell’informazione continua ad essere il maggiore problema del dopo terremoto?
(E.M.): L’informazione è uno dei problemi capitali del mondo d’oggi, non soltanto in Italia. La mia impressione è che L’Aquila sia stata trasformata in un grande palcoscenico, munta a dovere e poi scaricata. A distanza di due anni dal sisma il centro storico è pieno di macerie e palazzi ingabbiati, vuoto, polveroso e freddo. La periferia è un alveare impazzito. Non s’intravede un piano concreto di ricostruzione, e dunque non s’intravede un futuro. Direi che il terremoto aquilano è stato il più mediatico di tutti i tempi, perlomeno in Italia, ma anche il più frainteso. Tanta sovraesposizione – alternata a lunghi periodi di “buio informativo” – ha creato una schisi e confuso le idee agli italiani. Me ne accorgo ogni volta che parlo della questione con chiunque non sia aquilano.
(L.B.): A cosa sta lavorando? C’è una nuova opera in cantiere?
(E.M.): Ce ne sono tre! Un romanzo breve su un giovane disoccupato psicotico, un romanzo/mondo su un po’ di tutto (s’intitola La dissoluzione familiare e se ne trovano i primi sei capitoli su vibrisse, bollettino di Giulio Mozzi), e un terzo lavoro anch’esso assai lungo, di cui non voglio rivelare molto, ma che ruota attorno alla figura di Arthur Rimbaud, lo scrittore che preferisco in assoluto.