Enrico Marià: così macella il mondo …

Da Narcyso

... Cosa resta, dunque, alla vita che si è addobbata dei suoi stessi vessilli? Si potrebbe rispondere che la vita non ha domande a cui rispondere, troppo intenta nel forsennato compito che la trascina verso la conclusione. E se alla vita spetta l'ubbidienza, costi quel che costi, al poeta, allora, e solo al poeta, l'onere della parola riassuntiva prima che sia troppo tardi. La poesia, infatti, s'insinua pericolosamente proprio negli anfratti di un tempo vuoto, di un tempo di attesa che vuole essere detto.
Così Enrico Marià in questo libro riassuntivo di una fase della vita, si mostra impegnato nel compito di dire, con tutto l'ordine necessario, la successione dei fatti; quasi ripetuti a memoria e trasposti nell'ordine della forma che la poesia esige. Si tratta di testi straziati dall'esperienza, eppure necessari proprio per capire l'esperienza stessa e attraversarla.
Enrico Marià, dice Mauro Ferrari nella presentazione, compone una poesia "si diaristica, fondata su una certa immediatezza del dire che sa di cronaca (...) ma anche una poesia che raggiunge alti risultati trovando un equilibrio precario e rischiosissimo tra giornalistica registrazione di fatti ed estrema compressione dei versi".
Personalmente mi interessa molto questo equilibrio precario, perché la poesia non è mai una lingua consolatoria ma un organismo che pulsa avvertendo il pericolo dell'esistere a contatto, lacerata e nutrita dall'esperienza degli altri.
Questo è quindi un libro che nei suoi sotterranei richiama gli altri, li evoca alla stessa esperienza comune di corpi offesi e di canti che ci sollevano sopra le nebbie del dolore. Eppure, a suo modo, è anche un libro innocente e delicato; la censura, infatti, non è praticata in nome delle cose da dire ma del come dirle, perché risaltino senza ipocrisia e patetiche assoluzioni.
La poesia è specchio che trattiene e riflette ciò che delle cose segrete siamo disposti a svelare e ad affidare alla voce degli altri. Sono proprio gli altri, conosciuti o sconosciuti, a portare le parole verso la dimensione collettiva dello sguardo; persino le ombre che si palesano in forme minacciose o in scene brevissime che la memoria a malapena può trattenere. Ecco perché occorre che la forma sia come un bisturi affondato nelle parole per ferirle e renderle più splendenti.

Sebastiano Aglieco