Enrico Pea, Viareggio – Cacciucco e acquapazza

Da Paolorossi

Viareggio – Canale Burlamacca in una cartolina degli anni ’70

Il cacciucco è il padre dell’acquapazza. Questa è il cibo di fortuna improvvisato per rifocillarsi, dopo il pericolo. Quello, un mangiare alla meglio, nato povero, tra i pescatori di sciabica che è rete tirata a braccia sulle spiaggie e raccoglie tutti i pesci alla rinfusa di ogni sorta e peso, sì che scelti e divisi, per la vendita, nelle corbe i pesci di varia qualità, scartati i macolati, quel che resta di invendibile, il nome lo dice,è tutto cacciucco per la famiglia.
L’acquapazza, la ricordo bene per averla ammannita e mangiata, dopo due giorni di digiuno, una mattina all’alba sul “Ciucciarello”. Sfuggiti alla tempesta per miracolo. Rimpiattati in una insenatura fuori del porto di Spezia, l’acquapazza fu l’asciolvere dopo tanto forzato digiuno.
[…] L’uomo quando è in pericolo, non sente lo stimolo della fame, preoccupato della vita. Ma appena è al sicuro, l’uomo dimentica, torna contento e pensa a soddisfare il ventre che è quasi sempre il primo suo bene. «Sacco vuoto non sta ritto» sentenziò il capitano, e gli altri, che già avevano scoperchiato i boccaporti e rovistata la stiva, dissero: «Purtroppo la gabbia dei viveri freschi: pesci, erba, pane, rimasta in coverta, se l’è portata via il mare: bella, la mia cacciuccata…» sospirò l’affamato. E il capitano Aristide Aliboni, che qualche volta parlava a parabole, aggiunse: «Non potendo mangiare il padre, divoreremo la figlia». Parole oscure, queste, per me, ragazzo navigante di primo pelo, spaventato dalla lunga bufera, indebolito dal digiuno. […] Domandai al vecchio: «Chi è la figliola?».
«E’ l’acquapazza» rispose.
Dal ripostiglio di poppa, che per burla chiamavano cambusa, prendemmo il baccalà secco e le gallette: pane e companatico di “reguestro” cioè di riserva. Un peperone, una cipolla, una boccia di olio per il soffritto. Non c’era altro condimento. Il vecchio si lamentò che mancasse l’aglio per il pesto. Il baccalà già salato di suo, ammollato nell’acqua di mare, lavato, tagliato a pezzi con l’accetta, ché il coltellaccio era perso, fu prima messo a rosolare in un recipiente capace, con l’olio insieme alla cipolla tritata anche quella con l’accetta. E quando i pezzoni di baccalà furono di color ruggine, il vecchio riempì d’acqua di mare il pentolone. Come aspetto questa broda adesso non era bella, ma l’acqua amara del mare, smorzando l’olio fritto, aromata di baccalà e di cipolla, sprigionò un odore che già era buono. E intanto che la pentola rimaneva sul fuoco a spiccare il bollore, il peperone entrò nel mortaio a farsi pestare di santa ragione, solo, e, di nuovo, ricordammo l’aglio di cui s’era sprovvisti. Ma anche così, aggiunto l’olio crudo al peperone ridotto poltiglia, si formò una pomata rossa che arricchì di bel tono e di forte sapore l’acquapazza: cacciucco di fortuna. Adesso non c’era che affogare nell’acquapazza le gallette e impolpare, per fare di tanta frugalità, con la fame dei marinai, una prebilatezza, su cui si poteva bere, sprillato dal beccuccio del “purone marinaro”, (che è una fiasca di vetro) levato in aria, con buon pro’ a garganella, il vinetto nostrano.

(Enrico Pea, Il romanzo di Moscardino – Parte Terza:Magoometto, pag. 328/332 – Elliot Edizioni )

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