Gli Enslaved sono qualcosa di più di una semplice band di metal estremo, sono una mosca bianca in grado di sballare le statistiche e ridicolizzare tanti nomi altisonanti. Insieme da venticinque anni, con tredici album all’attivo e una parabola che sembra ancora non voler conoscere la fase discendente: tutto alla luce del sole, lampante e difficile da contestare. Detto questo, è inutile tentare il solito gioco del cominciare con i dubbi per sconfessarli alla fine del pezzo, perché In Times è l’ennesimo centro e la recensione potrebbe essere bella che fatta. In realtà, ciò che interessa è che anche in questo caso la band ha cambiato pelle e direzione, pur senza stravolgere quelli che sono i punti salienti del suo percorso artistico (e non sembra fuori luogo una volta tanto usare questo termine). Per assurdo, vista la durata dei brani, In Times sembra in qualche modo un disco che arriva subito al punto, ha in sé buone dosi di velocità e cattiveria, utilizza riff e linee melodiche che s’imprimono in mente grazie alla loro apparente semplicità, ma nel mischiarle alla maniera della formazione norvegese (con una buona spruzzata di indole prog e la spinta epica che da sempre giunge dalle retrovie e richiama alla mente quella lontana definizione di viking-metal) permette al tutto di assumere i colori di un affresco dall’incredibile potenza evocativa e di rapire l’ascoltatore. Merito appunto della lunghezza delle nuove composizioni, che permette variazioni d’umore con le giuste tempistiche, dell’equilibrio tra il ringhiare caustico di Grutle Kjellson e le clean vocals opera di Herbrand Larsen, ormai imprescindibile nel connotare l’Enslaved sound, come in generale del perfetto punto di fusione tra estremismo di matrice black e aperture rock. Così accade che un brano come “One Thousand Years Of Rain” contenga anche un coro che si potrebbe ben definire catchy eppure lo inserisca all’interno di una cavalcata da cui mai ci si aspetterebbe una simile svolta, il tutto senza la possibilità di comprendere l’istante preciso in cui l’orda ha deciso di frenare la sua corsa per ammirare attonita il paesaggio e si sia lasciata andare al sentimentalismo. Anche per quanto riguarda i testi, gli Enslaved hanno osato una via personale, costruendo una sorta di concept frammentato, non tanto una storia quanto un filo conduttore interpretato e osservato da diverse angolazioni, come lo ha definito lo stesso Ivar Bjørnson in sede d’intervista (Terrorizer). Si parla di tempo, stagioni, antiche storie e rune, ma in modo nient’affatto stereotipato o lineare, così da aggiungere un ingrediente prezioso all’interno di un disco che ancora una volta sposta in avanti la visione dei suoi creatori e ne rimette in discussione le certezze. Di queste ultime ci resta la qualità più unica che rara di una band che vanta ben pochi rivali all’interno della scena metal e non solo: se, poi, a qualcuno venisse in mente il nome dei Voivod, pur con i dovuti distinguo, sappia che l’idea – se si continua di questo passo – potrebbe non essere del tutto campata in aria.
Tracklist
01. Thurisaz Dreaming
02. Building With Fire
03. One Thousand Years Of Rain
04. Nauthir Bleeding
05. In Times
06. Daylight