Se la metrica dà al discorso poetico delle indicazioni di governo, indicazioni che attengono prevalentemente a fenomeni mensurabili o computabili (Beltrami), questo avviene però in una visione che in qualche modo deve attenere a un sentimento, un’ipotesi, un’utopia di integrità. Anche di una qualsivoglia catastrofe collettiva o individuale è necessario che se ne abbia una visione, o almeno una pretesa di commensurabilità, tenendo comunque presente che quella sorta di indice di approssimazione umana che regola il rapporto tra il “percepito” e l’espressione di ciò, si lega al mistero biologico che la vita rappresenta.
Scriveva nel 1971 Giovanni Raboni che la vera scoperta che riguarda la metrica nel poesia del dopoguerra è “che una qualsiasi formazione metrica di sillabe genera al proprio interno, se isolata a guisa di verso, una (magari aberrante, stridula o sorda o catastrofica, ma mai semplicemente inesistente) tensione metrica, un’ipotesi o immagine o progetto di organizzazione metrica di se stessa”. Alfredo Giuliani in uno scritto del 1955 già parlava dei vantaggi portati dall’incalcolabilità metrica di questi disordini ritmici “il verso è costretto a dilatarsi a assumere l’andatura della lingua viva”.
Ammesso che si voglia scrivere poesia in italiano, ammesso che si abbia il coraggio o l’autolesionismo di volersi riconoscere in questa discendenza individuale e collettiva per intero, la domanda che sarebbe qui e oggi ancora valida, forse è: in che rapporto metrico sta la poesia con la più stretta attualità? E per attualità non intendo l’informazione raccogliticcia di cui uno più o meno dispone ma la “realizzazione di una potenzialità superstite” o “costatazione di una non-potenzialità” di quanto è osservabile attraverso un’organizzazione metrica che testa ipoteticamente un vigore, a rischio di assumere sulla propria lingua tutte le cacofonie cui si sottopone e viene sottoposta.
Tra gli scritti in prosa più belli di quel poeta “minore” che fu il calabrese Lorenzo Calogero – che morì nel 1961 senza aver partecipato mai a nessun dibattito, né gruppo, lasciando oltre ottocento quaderni manoscritti di cui, con gravissimo ritardo, ci si sta occupando da pochi anni – trovo: “Nessuna verità è determinata da un a priori gratuito, ma è funzione sempre del più semplice e vigoroso modo di esprimersi. Penso, per fare quasi un po’ di polemica, che qualsiasi cosa espressa con l’ordine rigorosamente scientifico, mentre partecipa dell’espressività partecipa anche della verità, sempre e in ogni tempo, più di quanto non si ritiene dalla maggioranza degli uomini che in modo del tutto gratuito e immotivato attribuisce valore di verità a questa o a quella cosa. Così qualsiasi realismo o neorealismo sciattamente intesi sono i movimenti che meno vengono per giungere a una certa verità letteraria ed a quella propria della vita, o alla particella della vita che vive nella parola, e che la poesia ha solo valore entro limiti non facilmente definibili, a causa di postulati che potrebbero essere mobili e che forse sono gli unici che si addicono alla natura biologica dell’uomo; postulati che sono in continuo rifacimento, di fronte alla vita anche già per il modo sempre diverso con cui si intende la parola come particella della vita”.
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