Enzo Campi, “Ipotesi corpo”. Prefazione di Natàlia Castaldi

Creato il 06 luglio 2010 da Fabry2010

di Natàlia Castaldi

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Posizioni

(tracce e cancellazioni di un corpo in opera)

La parola «ipotesi», ύπό-ϑεσις,  tesi sottomessa, in questo caso, al corpo, deve essere intesa come una sorta di ricettacolo che contiene in sé almeno altri tre termini: supposizione, sintesi e tesi. Tutte e tre le definizioni (che non definiscono nulla di categorico, ma che si sfiniscono nel reiterare un palinsesto di possibilità) sono sottese al e nel corpo.


sulla soglia

pende tende il viso

soma cosa?

peso irriso

nudo assiso

sempre impreparato

tace l’ordine disordinato

delle manie represse inespresse

a piedi uniti

e mani sempre altrove

sempre

in opposizione

allontanandosi

dalla vibrazione

sviene ancora scivolando

sul seme imploso nella guaina

ascoltando il tonfo

della ragione

sempre costretta e immobilizzata

come sema

al sasso

e al sesso

sporcandosi di senso

Termini come tonfo, costretta, immobilizzata, rinviano a quella tesi sotto-messa di cui si è appena accennato e che viaggia all’unisono con la supposizione e con la sottoposizione. Da qui il titolo che ho inteso dare a questa mia disamina su un progetto di ricerca poetica e linguistica che l’Autore persegue a più livelli.

Tutto verte sul corpo e sulle sue posizioni, sulle ex-posizioni e sulle esposizioni, su ciò che genera i movimenti del corpo e su ciò a cui il corpo rinvia. A priori una ex-posizione, originaria e sorgiva, innata e, in un certo senso, dovuta. A fortiori un’esposizione fortemente legata al senso della «gettata», dell’estroiezione, del portarsi in fuori. Non a caso le epigrafi scelte dall’autore riportano due citazioni di Bacon e Artaud che, in quanto a gettate e esposizioni, non sono secondi a nessuno.

Il corpo è qui tema dell’indagine e palcoscenico in cui l’io mette in opera un monologo questionante che – poematicamente e teatralmente – si incarna nel corpo del testo e della parola cercando di risolvere (dissolvere?) l’unicità di senso di un doppio movimento che oscilla incessantemente tra il dispendio (come ragione di vita) e il ricominciamento (come unica possibilità di proiezione verso l’a venire). Ciò avviene attraverso la scissione drammatizzata tra forze centripete (pulsione, desiderio, istinto-carne) e forze centrifughe (ragione, indagine e ricerca-alterità).

e fa specie sapere

che il dolo

non è preso a nolo

e affrescato nell’istante

ma lucidamente reiterato

nel fluido fiume di carne

che riannoda

il punto al punto

l’uno raggomitolato

l’altro estinto

prima

trascolorato e vacuo

poi

insignito della carica suprema

che lo spinge ad apostrofare

il cosa

seguito dal punto di domanda

Lo scopo della parola non è quello di descrivere le passioni, bensì quello di lasciare che la drammaticità e la drammatizzazione trovino espressione attraverso la rappresentazione dell’effetto che esse esercitano nel corpo, nella voce del corpo, o meglio: nel corpo della voce, nel fragore di assonanze ed allitterazioni che si susseguono pretendendo l’oralità di un testo che fa del corpo materia di indagine e veicolo di prosecuzione.

io corpo certo

pronto all’uso

appena appena pastorizzato

poco più che prosciugato

ripartorito ripartito fluito

di poco in poco

pesato pensato

in vero disappaiato

come a dire

ghigliottinato

in fine piallato

per svilire l’attrito

come a ribadire

la privazione per un passato

sempre da ripassare

per morire il mondo

a tutto tondo

e ridefinire l’immondo

a cui tendiamo teniamo la mano

Un teatro del dolore (o, se preferite, della finzione del dolore; non a caso le posizioni vengono spesso declinate come “pose” e “posture”, senza disdegnare di sconfinare nei territori delle “sovrapposizioni” e delle “posposizioni”) nel quale e per il quale si scatena un bisogno di «alterità» che si allunga oltre il sé in offerta, si incunea nel suo stesso nucleo pulsante, in quell’istinto animale, tanto brutale quanto crudele, volto a scarnificare l’aporeticità che lo pervade nella sua oggettiva condizione assoluta e dominante.

[...]

magari cantare

per meglio toccare

tacciare tollerare

e mettersi in posa

postura su postura

e allora ridonda

si snoda

attorcigliandosi

si sottopone

anteponendosi al peso

si sovrappone

posponendosi al sesso

s’estenua

sopravvivendo al cozzo

per testare testarsi

e rendersi al senso

dei sensi defraudati

seppur ingigantiti

e collerici

sempre tesi e resi

ceduti al miglior offerente

caduti sotto il giogo

del non sarà mai stato che altro che questo

di

poco

in

meno

transitante

e

altero

[...]

faccio finta di niente

sempre in opposizione

avvicinandomi allo spasmo

faccio finta di cadere

e m’appropinquo

all’esalazione dell’umore

lungolinea esteso inesploso

a p p a r e n t e m e n t e concluso

faccio finta di sognare

mi trascino del tutto o poco più

attraversandomi al limite

mentre la lama declina

il suo istante di gloria

La drammaticità si concretizza nella creazione poetica scrivendo e riscrivendo il linguaggio nel corpo, ricercando il senso non solo nel significato oggettivo della parola ma, anche e soprattutto, nel connubio tra phoné e significante, in quell’incontro-scontro che restituisce al corpo (suo e del lettore) le disattese potenzialità che l’oralità ha in senso originario, in un gioco al massacro che, colpendo direttamente i sensi, traccia una mappa percettiva di significati e gesti attraverso i quali l’io si riscopre e si espone nelle verità più impietose ed intime di una carne che non può esimersi di mettersi «in opera».

io corpo dunque

solo pelle

slabbrata

deflagrata nei fianchi

messa in opera

traumatizzata

abbandonata al venereo fluido

che schizza ignavo

nell’ovo riflesso

dall’anomalo specchio

solora taciuto

né interamente compreso

né mai abbattuto del tutto

e sempre proteso al canto

Il tempo sembra assente giacché tutto si svolge in un «flusso ininterrotto», tanto naturale quanto crudele, entro i confini spaziali del proprio corpo. Ed è proprio all’interno del corpo che io e tempo si annullano conciliandosi nella pulsione-necessità del momentum-fenomeno, in un susseguirsi di presenti urgenze da soddisfare o vanificare.

io corpo sempre toccato

e schivato a malapena

poco più di un orgasmo

risuona e rinsalda

senza contatto alcuno

e qualcuno lo sa

per questo l’araldo urla l’editto

per mettere a morte

l’estraneo

che soffia sgretolando gli organi

e solo abbaia e ruggisce

chiamando a sé

l’ellisse ovalica

della vagina dentata cosa?

Il soggetto, sottomesso (sempre nella doppia accezione di supposto e sottoposto, cioè ipotizzato e posto al di sotto) al suo stesso spazio-corporeo, soggiogato dalla crudeltà del bisogno quale corrispondenza di istinto e senso, implode violentemente in un’ansia sacrilega di dissoluzione degli schemi imposti di colpa e peccato, riscoprendosi nella sofferenza e nel piacere della stilla che, rigenerandosi, celebra e insieme mortifica il prepuzio, sì da spostare l’ansia metafisica – quale risposta alla ricerca della sua stessa origine – nel fulcro rovesciato della sua stessa «materia-carne», dissacrando ed incarnandosi «corpo nei corpi», essenza di senso, essere in quanto finito ed immanente spazio.

Questa rigenerazione agisce sulle «posizioni» del corpo, ovvero ne ri-posiziona la forma e la materia moltiplicando le modalità del suo transito, senza disdegnare di misurarsi con la propria improduttività.

e non concordo

coi passi escritti

sulle linee dell’inquietudine

né ritiro l’arto

dall’insperato amplesso

col supporto

che ospita

il mio seme al nero

e

mi

mortifico

mescolandomi al residuo di ciò

che un giorno fu incenerito

e glorificato

in un con

che tracimava d’inconcluso

Dunque, anche l’amplesso, il donarsi e prendersi appare teatralmente fallace e limitato al bisogno e all’urgenza di un qualcosa che travalichi l’immanenza. Così tutto scorre in un flusso ininterrotto ove l’alterità si rinnova nel dispendio di sé e che ritorna a sé a mani vuote (o a mani troppo piene da sembrare vuote)

perché amore

se non sesso al senso che qui s’annoia e tace

dedicandosi la firma simpatica

pronta a dissolversi all’occasione mancata?

Amore, passione, bisogno, desiderio coincidono con l’unità di senso, con quell’uno che ne è origine e tristemente fine, conclusione, gesto circoscritto entro i confini del proprio derma. L’ansia verso il fuori da sé appare come un’illusoria e folle richiesta che si s-finisce, estroiettandosi e eiaculandosi (esponendosi e gettandosi), nella consapevolezza immanente e radicale di un’ellisse di apparente solitudine e inevitabile disperazione.

se la lingua s’impasta e precipita

comunque accedo

accadendomi nella lacerazione

perché corpo dunque

e per rinverdire cosa?

Ma la drammatizzazione dell’intero corpo testuale potrebbe portarci a vagliare anche altre ipotesi. Basta leggere tra le righe e isolare alcuni passaggi per rendersi conto che esiste la possibilità che tutta questa apologia dica l’esatto e perfetto contrario di ciò che manifesta: non il dolore e la disperazione quindi, ma la consapevolezza che il piacere e l’appagamento viaggino, a braccetto e di comune accordo, con l’idea che il rendersi prossimo all’altro (sia l’altro-da-sé che propriamente l’altro sesso) rappresenti l’unica possibilità di prosecuzione. Ancora un ri-posizionamento quindi. Il corpo-uno, nel tentare di instaurare un regime di prossimità col corpo-altro, per usare una terminologia cara all’autore, si deloca o si rialloca costruendo una sorta di protesi del suo stesso spazio vitale.

e

mi

avvicendo

all’altro

che non arriva mai ad essere

il solo l’unico l’esaustivo

senza distinguere all’interno del fondo

confondendomi appunto col

senza fine

[…]

quale utopia

è mai stata così vera?

pura emozione

del precipite

in cerca della sua levata

[…]

lo dico io

ora qui

solo sesso

sasso a sasso

senza senso

verso a verso

oppure

per converso

solo dilezione

amore

affetto

slancio

intensità

adorazione

effetto

Ma torniamo alla parola, al linguaggio: “piaga per disappropriarsi / o poesia per disgregarsi?”, si chiede l’autore. Siamo artaudianamente dinanzi ad una scrittura-estrema in cui attraverso un fitto gioco di inversioni semantiche e sintattiche, ogni parola viene scomposta e ricomposta nel suono e nelle sillabe facendosi così vettore di senso svincolato e pre-esistente al pensiero. Una scrittura speculare nel suo dispendio e ricominciamento che, disgregandosi, costringe all’a capo per poi ricomporsi a partire dal suo interno, tra le righe dicevo poc’anzi, o meglio nei suoi spazi bianchi, sì da lasciare con-fluire corpo della voce e corpo del testo in una sorta di «mise en suspence», sospendendo cioè il giudizio a favore della percezione e del senso, che qui – per l’appunto – afferma se stesso.

irrimediabilmente smembrato

pezzo a pezzo

per meglio specificarsi

e quantificare il prezzo

da pagare

per comprare

una lingua privata

del palato

ove impastare la complessità del canto

qui smisurato e dettato

senza il punto

che permetterebbe l’a capo

solo una volta

per l’appunto capovolta

Ma su cosa questo senso, che si fa corpo e nel corpo coincide, afferma se stesso? Il senso è l’Io, il senso sono «io» dice l’autore, sono «io» nei miei «fenomeni», nelle mie «posizioni» e nei miei ri-posizionamenti, nelle manifestazioni naturali della mia carne, delle mie pulsioni animali e al contempo trascendentali, sono «io» che esisto e sono perché corpo di me stesso che non si piega alle leggi di quello che Derrida, a proposito di Artaud, definì “Ladro” o ancora “gran Furtivo”, sono «io» in quanto corpo che si allunga sfinendosi e rigenerandosi negli altri corpi, dando così luogo al dono, allo scambio, al con-tatto che è significato immanente del mio stesso essere.

io corpo dunque

carne a carne

s’infervora e fluisce

scorrendo

appena aprendo

e aprendosi

succhiando la linfa alla falda

che salda

l’umido al fluido

in un solo gesto d’amore

In definitiva, la morale di questo poemetto, in cui le parole sembrano generarsi una dall’altra e cancellarsi una nell’altra, ci pone dinanzi a una soglia in cui la dissoluzione di ogni gesto rappresenta l’inevitabilità cui si va incontro sia nella vita che in letteratura.

Ed è, forse, proprio questo che ci rende vivi, che ci consente il transito e che ci permette di celebrare l’apologia del ricominciamento.

e qui vocò

il ritorno al punto primo

dal quale ritessere

la linea

lungo cui sfibrarsi

e ricominciare

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Enzo Campi, Ipotesi corpo, Edizioni Smasher, 2010 – 10,00 euro

ISBN 978-88-6300-020-7



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