di Natàlia Castaldi
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Posizioni
(tracce e cancellazioni di un corpo in opera)
La parola «ipotesi», ύπό-ϑεσις, tesi sottomessa, in questo caso, al corpo, deve essere intesa come una sorta di ricettacolo che contiene in sé almeno altri tre termini: supposizione, sintesi e tesi. Tutte e tre le definizioni (che non definiscono nulla di categorico, ma che si sfiniscono nel reiterare un palinsesto di possibilità) sono sottese al e nel corpo.
sulla soglia
pende tende il viso
soma cosa?
peso irriso
nudo assiso
sempre impreparato
tace l’ordine disordinato
delle manie represse inespresse
a piedi uniti
e mani sempre altrove
sempre
in opposizione
allontanandosi
dalla vibrazione
sviene ancora scivolando
sul seme imploso nella guaina
ascoltando il tonfo
della ragione
sempre costretta e immobilizzata
come sema
al sasso
e al sesso
sporcandosi di senso
Termini come tonfo, costretta, immobilizzata, rinviano a quella tesi sotto-messa di cui si è appena accennato e che viaggia all’unisono con la supposizione e con la sottoposizione. Da qui il titolo che ho inteso dare a questa mia disamina su un progetto di ricerca poetica e linguistica che l’Autore persegue a più livelli.
Tutto verte sul corpo e sulle sue posizioni, sulle ex-posizioni e sulle esposizioni, su ciò che genera i movimenti del corpo e su ciò a cui il corpo rinvia. A priori una ex-posizione, originaria e sorgiva, innata e, in un certo senso, dovuta. A fortiori un’esposizione fortemente legata al senso della «gettata», dell’estroiezione, del portarsi in fuori. Non a caso le epigrafi scelte dall’autore riportano due citazioni di Bacon e Artaud che, in quanto a gettate e esposizioni, non sono secondi a nessuno.
Il corpo è qui tema dell’indagine e palcoscenico in cui l’io mette in opera un monologo questionante che – poematicamente e teatralmente – si incarna nel corpo del testo e della parola cercando di risolvere (dissolvere?) l’unicità di senso di un doppio movimento che oscilla incessantemente tra il dispendio (come ragione di vita) e il ricominciamento (come unica possibilità di proiezione verso l’a venire). Ciò avviene attraverso la scissione drammatizzata tra forze centripete (pulsione, desiderio, istinto-carne) e forze centrifughe (ragione, indagine e ricerca-alterità).
e fa specie sapere
che il dolo
non è preso a nolo
e affrescato nell’istante
ma lucidamente reiterato
nel fluido fiume di carne
che riannoda
il punto al punto
l’uno raggomitolato
l’altro estinto
prima
trascolorato e vacuo
poi
insignito della carica suprema
che lo spinge ad apostrofare
il cosa
seguito dal punto di domanda
Lo scopo della parola non è quello di descrivere le passioni, bensì quello di lasciare che la drammaticità e la drammatizzazione trovino espressione attraverso la rappresentazione dell’effetto che esse esercitano nel corpo, nella voce del corpo, o meglio: nel corpo della voce, nel fragore di assonanze ed allitterazioni che si susseguono pretendendo l’oralità di un testo che fa del corpo materia di indagine e veicolo di prosecuzione.
io corpo certo
pronto all’uso
appena appena pastorizzato
poco più che prosciugato
ripartorito ripartito fluito
di poco in poco
pesato pensato
in vero disappaiato
come a dire
ghigliottinato
in fine piallato
per svilire l’attrito
come a ribadire
la privazione per un passato
sempre da ripassare
per morire il mondo
a tutto tondo
e ridefinire l’immondo
a cui tendiamo teniamo la mano
Un teatro del dolore (o, se preferite, della finzione del dolore; non a caso le posizioni vengono spesso declinate come “pose” e “posture”, senza disdegnare di sconfinare nei territori delle “sovrapposizioni” e delle “posposizioni”) nel quale e per il quale si scatena un bisogno di «alterità» che si allunga oltre il sé in offerta, si incunea nel suo stesso nucleo pulsante, in quell’istinto animale, tanto brutale quanto crudele, volto a scarnificare l’aporeticità che lo pervade nella sua oggettiva condizione assoluta e dominante.
[...]
magari cantare
per meglio toccare
tacciare tollerare
e mettersi in posa
postura su postura
e allora ridonda
si snoda
attorcigliandosi
si sottopone
anteponendosi al peso
si sovrappone
posponendosi al sesso
s’estenua
sopravvivendo al cozzo
per testare testarsi
e rendersi al senso
dei sensi defraudati
seppur ingigantiti
e collerici
sempre tesi e resi
ceduti al miglior offerente
caduti sotto il giogo
del non sarà mai stato che altro che questo
di
poco
in
meno
transitante
e
altero
[...]
faccio finta di niente
sempre in opposizione
avvicinandomi allo spasmo
faccio finta di cadere
e m’appropinquo
all’esalazione dell’umore
lungolinea esteso inesploso
a p p a r e n t e m e n t e concluso
faccio finta di sognare
mi trascino del tutto o poco più
attraversandomi al limite
mentre la lama declina
il suo istante di gloria
La drammaticità si concretizza nella creazione poetica scrivendo e riscrivendo il linguaggio nel corpo, ricercando il senso non solo nel significato oggettivo della parola ma, anche e soprattutto, nel connubio tra phoné e significante, in quell’incontro-scontro che restituisce al corpo (suo e del lettore) le disattese potenzialità che l’oralità ha in senso originario, in un gioco al massacro che, colpendo direttamente i sensi, traccia una mappa percettiva di significati e gesti attraverso i quali l’io si riscopre e si espone nelle verità più impietose ed intime di una carne che non può esimersi di mettersi «in opera».
io corpo dunque
solo pelle
slabbrata
deflagrata nei fianchi
messa in opera
traumatizzata
abbandonata al venereo fluido
che schizza ignavo
nell’ovo riflesso
dall’anomalo specchio
solora taciuto
né interamente compreso
né mai abbattuto del tutto
e sempre proteso al canto
Il tempo sembra assente giacché tutto si svolge in un «flusso ininterrotto», tanto naturale quanto crudele, entro i confini spaziali del proprio corpo. Ed è proprio all’interno del corpo che io e tempo si annullano conciliandosi nella pulsione-necessità del momentum-fenomeno, in un susseguirsi di presenti urgenze da soddisfare o vanificare.
io corpo sempre toccato
e schivato a malapena
poco più di un orgasmo
risuona e rinsalda
senza contatto alcuno
e qualcuno lo sa
per questo l’araldo urla l’editto
per mettere a morte
l’estraneo
che soffia sgretolando gli organi
e solo abbaia e ruggisce
chiamando a sé
l’ellisse ovalica
della vagina dentata cosa?
Il soggetto, sottomesso (sempre nella doppia accezione di supposto e sottoposto, cioè ipotizzato e posto al di sotto) al suo stesso spazio-corporeo, soggiogato dalla crudeltà del bisogno quale corrispondenza di istinto e senso, implode violentemente in un’ansia sacrilega di dissoluzione degli schemi imposti di colpa e peccato, riscoprendosi nella sofferenza e nel piacere della stilla che, rigenerandosi, celebra e insieme mortifica il prepuzio, sì da spostare l’ansia metafisica – quale risposta alla ricerca della sua stessa origine – nel fulcro rovesciato della sua stessa «materia-carne», dissacrando ed incarnandosi «corpo nei corpi», essenza di senso, essere in quanto finito ed immanente spazio.
Questa rigenerazione agisce sulle «posizioni» del corpo, ovvero ne ri-posiziona la forma e la materia moltiplicando le modalità del suo transito, senza disdegnare di misurarsi con la propria improduttività.
e non concordo
coi passi escritti
sulle linee dell’inquietudine
né ritiro l’arto
dall’insperato amplesso
col supporto
che ospita
il mio seme al nero
e
mi
mortifico
mescolandomi al residuo di ciò
che un giorno fu incenerito
e glorificato
in un con
che tracimava d’inconcluso
Dunque, anche l’amplesso, il donarsi e prendersi appare teatralmente fallace e limitato al bisogno e all’urgenza di un qualcosa che travalichi l’immanenza. Così tutto scorre in un flusso ininterrotto ove l’alterità si rinnova nel dispendio di sé e che ritorna a sé a mani vuote (o a mani troppo piene da sembrare vuote)
perché amore
se non sesso al senso che qui s’annoia e tace
dedicandosi la firma simpatica
pronta a dissolversi all’occasione mancata?
Amore, passione, bisogno, desiderio coincidono con l’unità di senso, con quell’uno che ne è origine e tristemente fine, conclusione, gesto circoscritto entro i confini del proprio derma. L’ansia verso il fuori da sé appare come un’illusoria e folle richiesta che si s-finisce, estroiettandosi e eiaculandosi (esponendosi e gettandosi), nella consapevolezza immanente e radicale di un’ellisse di apparente solitudine e inevitabile disperazione.
se la lingua s’impasta e precipita
comunque accedo
accadendomi nella lacerazione
perché corpo dunque
e per rinverdire cosa?
Ma la drammatizzazione dell’intero corpo testuale potrebbe portarci a vagliare anche altre ipotesi. Basta leggere tra le righe e isolare alcuni passaggi per rendersi conto che esiste la possibilità che tutta questa apologia dica l’esatto e perfetto contrario di ciò che manifesta: non il dolore e la disperazione quindi, ma la consapevolezza che il piacere e l’appagamento viaggino, a braccetto e di comune accordo, con l’idea che il rendersi prossimo all’altro (sia l’altro-da-sé che propriamente l’altro sesso) rappresenti l’unica possibilità di prosecuzione. Ancora un ri-posizionamento quindi. Il corpo-uno, nel tentare di instaurare un regime di prossimità col corpo-altro, per usare una terminologia cara all’autore, si deloca o si rialloca costruendo una sorta di protesi del suo stesso spazio vitale.
e
mi
avvicendo
all’altro
che non arriva mai ad essere
il solo l’unico l’esaustivo
senza distinguere all’interno del fondo
confondendomi appunto col
senza fine
[…]
quale utopia
è mai stata così vera?
pura emozione
del precipite
in cerca della sua levata
[…]
lo dico io
ora qui
solo sesso
sasso a sasso
senza senso
verso a verso
oppure
per converso
solo dilezione
amore
affetto
slancio
intensità
adorazione
effetto
Ma torniamo alla parola, al linguaggio: “piaga per disappropriarsi / o poesia per disgregarsi?”, si chiede l’autore. Siamo artaudianamente dinanzi ad una scrittura-estrema in cui attraverso un fitto gioco di inversioni semantiche e sintattiche, ogni parola viene scomposta e ricomposta nel suono e nelle sillabe facendosi così vettore di senso svincolato e pre-esistente al pensiero. Una scrittura speculare nel suo dispendio e ricominciamento che, disgregandosi, costringe all’a capo per poi ricomporsi a partire dal suo interno, tra le righe dicevo poc’anzi, o meglio nei suoi spazi bianchi, sì da lasciare con-fluire corpo della voce e corpo del testo in una sorta di «mise en suspence», sospendendo cioè il giudizio a favore della percezione e del senso, che qui – per l’appunto – afferma se stesso.
irrimediabilmente smembrato
pezzo a pezzo
per meglio specificarsi
e quantificare il prezzo
da pagare
per comprare
una lingua privata
del palato
ove impastare la complessità del canto
qui smisurato e dettato
senza il punto
che permetterebbe l’a capo
solo una volta
per l’appunto capovolta
Ma su cosa questo senso, che si fa corpo e nel corpo coincide, afferma se stesso? Il senso è l’Io, il senso sono «io» dice l’autore, sono «io» nei miei «fenomeni», nelle mie «posizioni» e nei miei ri-posizionamenti, nelle manifestazioni naturali della mia carne, delle mie pulsioni animali e al contempo trascendentali, sono «io» che esisto e sono perché corpo di me stesso che non si piega alle leggi di quello che Derrida, a proposito di Artaud, definì “Ladro” o ancora “gran Furtivo”, sono «io» in quanto corpo che si allunga sfinendosi e rigenerandosi negli altri corpi, dando così luogo al dono, allo scambio, al con-tatto che è significato immanente del mio stesso essere.
io corpo dunque
carne a carne
s’infervora e fluisce
scorrendo
appena aprendo
e aprendosi
succhiando la linfa alla falda
che salda
l’umido al fluido
in un solo gesto d’amore
In definitiva, la morale di questo poemetto, in cui le parole sembrano generarsi una dall’altra e cancellarsi una nell’altra, ci pone dinanzi a una soglia in cui la dissoluzione di ogni gesto rappresenta l’inevitabilità cui si va incontro sia nella vita che in letteratura.
Ed è, forse, proprio questo che ci rende vivi, che ci consente il transito e che ci permette di celebrare l’apologia del ricominciamento.
e qui vocò
il ritorno al punto primo
dal quale ritessere
la linea
lungo cui sfibrarsi
e ricominciare
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Enzo Campi, Ipotesi corpo, Edizioni Smasher, 2010 – 10,00 euro
ISBN 978-88-6300-020-7