Eredità.

Da Suster

In questi giorni sono stata piuttosto occupata ad autocommiserarmi, poi a un certo punto sono riuscita a concludere, ed eccomi ritornata più o meno in me. Diciamo che poi quando i guai arrivano arrivano a grappoli, come le bombe che fanno più danno, e se non li vogliamo proprio chiamare guai, chiamiamoli problemi, e se problemi non vogliam proprio chiamarli, allora chiamateli pure pensieri, chè di pensieri ce n'è sempre, e se non ci fossero, guai, che ci s'imprigrirebbe il cervello.
E poi a nessuno piace sentire altri lamentarsi, ché ognuno ne ha abbastanza già dei suoi guai problemi pensieri, e così ultimamente scrivo solo idiozie in cui non mi riconosco molto, non riconosco il mio vissuto di ora e mi chiedo a cosa serva, e più di una volta mi son domandata se non fosse giunta la sua ora, l'ora di chiuderlo, il blog dove non parlo più di nulla. Ma poi, in fondo.
Quindi mi son detta: orsù, o qualcosa del genere, chè non son mica nata nell'800, io , anche se poco ci manca a giudicare da come mi esprimo a volte, cosa ho da rimuginare tanto?
Si sa che ciascuno è artefice del suo destino, e così io; piangersi addosso, a che pro?
Ora apro il blog e scrivo, riprendo uno di quei post iniziati secoli or sono e mai finiti (ecco, forse nell'800 devo aver cominciato questo: "Eredità", che ci volevo scrivere poi, chissà. No: Carlo Conti non c'entra. Mah!).
Ecco come cominciava: Apro il post con una foto non a caso, chè è proprio di questa foto che volevo parlare, o meglio, è questa foto che mi ha dato lo spunto a scrivere oggi.
Lasciamo stare la mia terribile felpa, che non è del modo in cui venivo, ahimè, vestita da piccola che ho intenzione di parlare qui, anche se, uh, se ce ne sarebbe da dire! 
Come al solito grandi divagazioni per dire infine che la pupa aveva iniziato a sillabare con la vocale "o", e faceva un mucchio scompisciare, ché la pronunciava tutta chiusa, serratissima, e diceva tipo "o" con la dieresi (come si fa a fare con la tastiera italiana) e ne usciva fuori un bizzarro "nonno", che poi era l'uomo che vedete in foto, insieme a me piccola imbronciata, ché da piccola uscivo spesso imbronciata in foto, forse perché ero spesso imbronciata, chissà.
E a me questa cosa mi aveva profondamente toccato qualche tasto profondo dell'anima, se posso dire commosso lo dico: mi aveva un poco commosso, che la pupa, dico, dicesse "nonno" indicando la foto, pur non avendolo mai conosciuto in vita sua e pur sapendo io che mai l'avrebbe potuto conoscere, non di persona almeno, ma solo per voce riportata.
E allora tante cose mi tornavano in mente. Mi tornavano in mente i giorni tristi, terribili di pianti e pensieri spauriti sul futuro, quando pensavo che lui a breve non ci sarebbe più stato, perchè la malattia se lo mangiava, e c'erano alcuni pensieri che più degli altri mi facevano male, ed uno di questi era che i miei figli non avrebbero mai conosciuto il loro nonno, che i miei figli non lo avrebbero mai conosciuto, che a loro sarebbe mancata in fondo questa eredità spirituale, questa continuità generazionale, e questa cosa mi faceva molto male.
Oh, io ce lo vedevo mio padre come nonno!
Mio padre che non ha fatto mai giochi scalmanati con noi, o di gran fisicità, come per idea comune ci si aspetta dai padri.
Mio padre che annotava i particolari della vita e ci sottoponeva indovinelli sulle piccole cose del quotidiano. Secondo te cos'è quella striscia più scura che corre lungo il muro a mezzo metro da terra? Era il cane peloso del vicino, che tutti i giorni usciva proprio da quell'apertura del garage e seguiva proprio quel percorso lungo il muro, poi tornava indietro, e nel tempo aveva lasciato la sua bella scia di grasso sebaceo.
Mio padre che inventava soluzioni personali ai problemi di ordine pratico, che a volte rasentavano la bizzarria, come quell'oblò che volle montare sull'uscio di casa...
Mio padre che trasferiva nella sua vita reale i principi in cui credeva, ma mio padre che prima di credere a un principio, guardava alle situazioni reali, che ai principi di massima mai corrispondono.
Mio padre che non amava le smancerie, che non amava sprecare parole, che liquidava i discorsi che riteneva inutili con un'infastidita alzata di spalle, e che in generale tendeva a rifuggire le occasioni di vita mondana, a conti fatti finendo per essere piuttosto orso.
Mio padre che se era invitato ai matrimoni metteva la giacca a scacchi beige, la cosa più elegante che mai gli avessi visto indosso, ma che in linea di massima riduceva il suo abbigliamento a una camicia e al solito giubbotto smanicato con le tascone sul davanti.
Mio padre che sapeva azzerare i miei patemi d'animo dando sempre la risposta più semplice, che in genere era quella che avevo bisogno di sentire, e che non avevo voglia di mettere in pratica, ma lo facevo.
Mio padre che aveva mantenuto integra la fantasia e la creatività di un bambino, era in effetti un po' genialoide, ma come tutte le persone un po' geniali, difettava nella comunicazione e nella partecipazione altrui ai propri progetti.
Mio padre che non andava mai a parlare con i docenti e lo riteneva un supplizio, e che una volta mi firmò una risposta a una convocazione della mia professoressa di greco che diceva: "Come se fossi venuto. Dite pure alla ragazza.", cosa che mandò lei su tutte le furie.
Questo e poi tanto altro, come c'è da aspettarsi, ché una persona è sempre fatta di tante cose, e descrivere in pochi tratti essenziali non è mai stato il mio forte, io che divago e per parlare di una cosa faccio prima mille giri e arzigogoli mentali e verbali, e la memoria poi non aiuta, che si riduce una persona a una serie di immagini accavallate, di ricordi episodici, aneddoti che tu ritieni esemplari a spiegare chi fosse quella persona, la cui memoria vorresti tenere viva ma non ci riesci poi mai del tutto, perchè ti sfuggono le espressioni a mezza bocca, gli sguardi, i silenzi al momento giusto.
Come quando, d'improvviso, mi sono sentita come chi porta avanti una conversazione e si ritrova a un tratto con il ricevitore in mano, muto, e non ha più modo di rintracciare l'interlocutore, perché non ha più il numero, e non lo ha l'altra persona, e la conversazione allora è destinata a rimanere così, tronca, per l'eternità. Era questa la sensazione: una comunicazione interrotta, per sempre, tante parole dette, tante esperienze, tanti ricordi comuni, luoghi visti insieme, discorsi fatti e lasciati a metà, ripresi, continuati su carta, a voce, rimandi ad altre cose dette, riferimenti a persone note, vecchie battute, sempre riesumate, lettere scritte, ricordi di quando, ricordi quando ti dissi, secondo te cosa è meglio, sai cosa mi è successo, sai cosa ho letto, lo sai che in quel posto, ricordi quando andammo.
Quella complicità che affiorava a tratti, e mi rendeva piena e sicura di un nostro rapporto esclusivo, i pochi messaggi di lui sul cellulare, criptici, come massime di vita, ancora li ricordo: "Anche buttarsi in acqua per salvare qualcuno è rischioso". Tutto finito, tutto inutile, materiale ingombrante della memoria, ormai senza destinatario, a senso unico, ed era molto stabilizzante.
E spesso mi dico che non potrò mai trasmettere a lei il ricordo che ho di lui tutto quanto, che nella trasmissione si perde il contatto diretto, e come al solito non so nemmeno da che parte cominciare.
Anche quando mi dico che lei, in fondo, lo conoscerà anche attraverso quel che io sono, più che da quel che io racconto, poi mi chiedo cos'è che è rimasto in me di lui, quale reale eredità.
Forse la mia insofferenza per le discussioni infinite? La mia intolleranza idiosincratica per la banalità, i cliché, le situazioni tipo? I pantaloni di velluto a costine? I capelli crespi, gli occhi azzurri? La tendenza a vagare per luoghi sperduti alla ricerca di quello che pochi conoscono? La  predilizione per le strade secondarie, per i percorsi non convenzionali, nella viabilità come nella vita? La sensazione di essere sempre "fuori", fuori dai ranghi? Quella sua consapevolezza un po' presuntuosa di estraneità al modo di essere standard?
Ma lui lo sapeva fare meglio, somigliando a se stesso senza inutili confronti con altri. O almeno così credevo io.
E così, sarà che ultimamente avrei avuto tanta voglia di parlare con lui, che mi desse ancora una volta la risposta più semplice di tutte, quella che in fondo già conoscevo, ma che mi aspettavo mi dicesse lui, sarà che è stata un'altra estate di attesa, come quell'altra, tanti anni fa, e c'erano le olimpiadi anche allora, e un Italiano vinceva la Maratona, e faceva caldissimo, come questo maledetto, maledettissimo agosto infinito.
Divento malinconica. Mi chiedo come sarebbe stato.
Sicuramente sarei cresciuta meno.
Questo vantaggio portano almeno le sciagure della vita, o le difficoltà, se vogliamo, che ti fan crescere.
E cerco di darmi da sola la risposta più semplice,  e porto avanti il ricordo di lui, o quel che ne resta in me, che non somiglia mai a quello che hanno altri.
- Mi 'acconti la ttoia di nonno Mauo?
- Va bene. Nonno Mauro aveva un furgoncino rosso, e quando partivamo entravamo tutti nel furgoncino rosso, e zio Ciccio lo chiamava Il tutù, perché gli sembrava un trenino. E andavamo tutti carichi carichi in giro per l'Italia, con tutte le valigie sul tetto del tutù. Anzi, prima ancora aveva una macchina azzurra vecchia vecchia, e noi bambini stavamo nel bagagliaio, che era grande, e ci stendevamo una coperta per giocare, mentre viaggiavamo, poi quando eravamo stanchi dormivamo.
- E cosa cantava nonno Mauo?
- Cantava Sol soletto vola il pipistrello e Il più bel fiorellin del mondo.
- Poi la cantone della bicicletta-cletta-cletta?
- Sì, anche quella. Quella l'ha inventata lui, eh. E' bellissima quella canzone.
- Tì: è popio bellittima quella cantone! E poi?
- Poi...

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