Chiara Saraceno indaga dunque la parola “eredità”, mostrando come essa si riferisca non solo a beni materiali né, di conseguenza, al loro trasferimento da un individuo all’altro in occasione della morte di uno dei due. Nelle comunità umane si ereditano invece le cose più svariate, e molti di questi “trasferimenti” avvengono in vita.
Il primo esempio che viene in mente a me (sarà per l’altra «Gemma» che abbiamo recensito qui, quella di Luisa Muraro) è che il linguaggio, per esempio, viene ereditato non solo in vita, ma all’inizio della vita dalla madre al neonato. Si possono ereditare dunque anche patrimoni simbolici, affettivi, culturali… politici. Non sempre, poi, i beneficiari sono consanguinei con colei o colui che lascia in eredità, dato che potrebbero avere avuto con lei / lui o rapporti non riconosciuti dalla legge (è il caso delle convivenze, o altri di legami decisivi ma non sanciti) o addirittura non avere mai conosciuto personalmente l’individuo che “trasmette” (mi viene in mente l’esempio di Virginia Wolf per il femminismo, di Martin Luther King per gli attivisti dei diritti civili, e molte altre “icone”). Inoltre, “eredità” – nello sguardo ampio che Chiara Saraceno adotta in questo libricino – è un lascito da considerarsi dinamico ma non sempre positivo: sono i casi di “eredità del debito”, come quelli della Germania dopo il secondo conflitto mondiale o del post-apartheid in Sudafrica. In questi casi, ma evidentemente anche in altri, non sempre i beneficiari di una specifica eredità desiderano farsene carico, anche se è attraverso l’elaborazione di quella eredità che passa la possibilità di futuro autentico. Saraceno non lo cita esplicitamente, ma a me è venuto in mente lo slogan «Noi la crisi non la paghiamo», ripetuto anche in questi giorni dagli studenti in manifestazione a Milano. Non è anche questo un esempio di eredità rifiutata? Ma anche il rifiuto necessiterebbe di pratiche efficaci per essere messo in atto. Su questo torno brevemente alla fine.
Un altro spunto interessante viene dal legare “eredità” a “tradizione”: adottando questo punto di vista si mette in luce come «che cosa faccia parte del retaggio di un paese o addirittura del mondo, dell’umanità, non è, quindi, frutto di una decisione oggettiva e tanto meno autoevidente. È l’esito selettivo di rapporti di potere tra individui e gruppi sociali, rispetto non solo a chi ha le risorse per lasciare traccia di sé nel mondo, ma quali tracce meritino di essere valorizzate e tramandate» (p. 45). Qui giustamente si ricorda Judith Shakespeare e l’impossibilità di esprimere e di tramandare che le donne hanno sperimentato per millenni (una riflessione tra le tante che Chiara Saraceno così suggerisce ma non sviluppa e come tutt’oggi siamo afflitte da altre forme di impossibilità di elaborazione e di lascito). E si offre anche la chiave di lettura per spiegare come mai i funerali – dunque il momento inequivocabile di lascito di una eredità – possano tramutarsi, in certi contesti, in vere manifestazioni politiche.
Questi sono solo pochi argomenti tra i moltissimi affrontati in queste poche pagine da Saraceno, alla quale infatti si potrebbe obiettare di toccare quasi tutti gli argomenti correlati alla parola-titolo (dall’imposta di successione ad Angelina Jolie, dall’eredità genetica ai matrimoni misti, dal patrimonio ambientale alla memoria nazionale…) ma come dispersivamente, senza far svolgere a una lettura unitaria il compito di collegare questi disparati ambiti. Il vantaggio di non concludere il discorso senz’altro c’è, lo rende aperto e continuo come aperto e continuo è appunto l’uso della parola che Saraceno “cura”: basti pensare alla cronaca politica di questi giorni, in cui la politica maschile così volentieri sta usando la metafora di Berlusconi-padre e di Alfano-figlio… è in atto uno dei sensi di “eredità” anche qui.
Ma un suggerimento finale Saraceno comunque ce lo dà, ossia che una volta accettate le eredità il compito da parte dei beneficiari è quello di emanciparsene, facendosi carico sì di crediti e debiti ma vigilando sulla mortifera ambizione di fedeltà totale. Non ripetere l’identico. Dal mio personale punto di vista, l’invito a essere capaci di trasmettere a propria volta, accettando di essere “generativi” (sic, p. 105), suona come l’invito a una responsabilità che non si può esplicare solo nel rifiuto, nell’orrore, nel diniego, ma anche nell’elaborazione di pratiche non direttamente ricevute, bensì creativamente elaborate.