Eros e polis: di quella volta che sono stata Dio nella mia pancia – Recensione di Emilia Barbato

Creato il 06 ottobre 2014 da Wsf

La forma migliore per perfezionare la poesia, dico, è lasciarla germogliare nel silenzio, mandarla a memoria,praticarla come atto di resistenza contro la follia dei giorni. Eppure, quando mi imbatto per caso in autori originali e dalle qualità letterarie altissime, che sanno trattare, sublimandolo, il vero della vita; che ne denunciano le malattie, non riesco a frenare l’entusiasmo, così ne scrivo.

Prima di leggere Eros e polis non conoscevo le poesie di Claudia Zironi. Nella silloge, edita da Terra d’ulivi, la parola è accompagnata dalle belle illustrazioni di Alberto Cini che amplifica con lo sguardo la voce poetica dell’autrice.

Sebbene strutturata in un corpo unico, Eros e polis mostra una dualità alternata e costante. In tutta l’opera si avverte l’interazione tra propensioni (eros) e ambiente circostante (polis). I frammenti del dialogo amoroso cedono spazio alle lame pratiche della ragione. Le raffiche gelide della solitudine allontanano, la tenerezza dei momenti. Rimane il dolore.

Claudia sceglie un linguaggio diretto, l’uso affilato delle parole e uno stile scarno, quest’ultimo, nella sua immediatezza, si presta perfettamente a propagare una eco nel vuoto che accerchia il genere umano.

va tutto bene

Anche l’amore in imballaggio
non riciclabile lo consumiamo in fretta
lo buttiamo, ne compriamo un altro.
Reclamiamo diritti di passione
con sassaiole in piazza. Ci dicono
che va tutto bene e proseguiamo.

so che anche tu

Non ho ricordi dell’ingegnere, del macellaio e del manovale,
dell’operaio solo il cacciavite e del fornaio, innamorato
della svizzera, ricordo che usava il mio accappatoio
al campeggio, per una breve doccia. E il biondo in spiaggia
– come si chiamava? – sull’asciugamano mi ha baciata
e sul bagnasciuga mi ha lasciata. Non ti ricordo,
amore mio di una notte, ma so che anche tu
mi hai dimenticata.

I versi aprono una breccia sul difficile equilibrio tra l’esigenza di affermare se stessi ed il bisogno di essere integrati nel mondo degli altri, smascherando tutte le insicurezze e i passi falsi. Malgrado la difficoltà delle tematiche scelte, l’autrice riesce a plasmare la materia dura con la bellezza della sua poesia facendone un terreno morbido dove lasciare camminare sicuro il lettore.

guarda lassù i ragazzi

Il primo chiamava “ragazzi” i gabbiani,
chiamava me per cognome e chiamava “casa”
un rudere fatiscente in via dell’ospedale.
Mi fece una magia, con un archetipo
ebraico, per legarmi a sé come un laccio
emostatico, più di quanto già non fossi.
Che bisogno c’era mi chiedevo.
E’ che doveva trovare
un potere esoterico
più forte dell’ago

Con ‘apparente’ distacco Claudia materializza sulla pagina lo spirito della solitudine, la paura di non piacere che tocca ciascuno,le difficoltà ed il dolore che scaturiscono dalle relazioni, svilite sempre più dai ritmi/modelli della società postmoderna.

non sei abbastanza bella, cara

I peluzzi delle ascelle, le sopracciglia,
ogni papilla del dolce e del salato,
reni e utero, l’unghia dell’alluce, tutti
erano informati ormai, dopo tre anni,
che non mi amavi.
Ricordo ancora in via castelfidardo
il bagno insieme, il bruciante sesso,
i teneri baci e il dolce senso d’impotenza
dell’ultima volta che lo hai ripetuto

Il ricorso ad una figura amata senza volto e nome è una linea immaginaria che compie, congiungendosi al suo antimeridiano, il cerchio massimo dei sentimenti. Il lettore naviga così moti di rabbia, dolore e splendidi ritorni alle origini della carne.

senza nome

Sei un nameless, mindless, heartless,
un lessico immobile nella sede
di Lotta Comunista, un santo dipinto
nel tuo letto a una piazza dove
giaci immobile e ti offri senza godere
col pene eretto verso il sole
dell’avvenire, verso le porte
a cui bussi con un giornale
da vendere o da regalare. Un testimone
silenzioso del fallimento di Geova,
di Eros e di Marx. Perduto
nella negazione dell’individualità.
Una piccola vergogna senza nome
nei miei ricordi. Il solo nameless.

un piccolo ringraziamento

Ammirando il pentacolo
davanti alla tua porta
mi immergo in purezze
insospettate, davvero
limpida insegna il cuore
tuo fanciullo mi invita
a riflettere su anni passati
E ritrovo il perché
di certi sospiri dalla carne
sradicati, ancora vivi
se solo nel ricordo. Andati

conseguenti dimenticanze della distrazione amorosa

Questa sensazione che mi prende
di non bastare a me stessa
che normalmente ricerco
distanza dal mondo degli umani
se per poche ore non ti leggo
non vedo il tuo viso
non scorgo il tuo nome
E mi scava di vuoto il ventre
Undici sigarette all’abisso

Le liriche si ammantano di nostalgia e bellezza quando i paesaggi del cuore sono quelli familiari. Qui la scrittura si fa intima e delicata.

al marito

A chi ci chiese del viaggio
rispondemmo
con cartoline di Montmartre
Ben tacemmo
di quando la fronte, sola
si era sporta dall’uscita del metro
per ridere dell’Arco de Triomphe,
dell’occhiata ventosa a La Defense
e di quando ci eravamo spaventati
di un’ombra nella notte che inseguiva
l’immaginazione;
dell’albergo rétro, da quattro soldi
Incapaci felici alla finestra che mangiavano croissant
Nonostante
già si presagisse tutto
e oggi ci si guardi
negli occhi di una bimba, solamente

somiglianze

Ti assomiglia, ti ha detto
piangendo
Guardando
sei centimetri
di ecografia

ho sentito

Ho sentito il tamtam nella foresta
che chiamava all’adunata per la guerra,
ho sentito il bambino che batteva
un mestolo sulla pentola di latta
in una favela, ho sentito il rintocco
della campana di Notre Dame, i colpi
di cannone, lo sciabordio
dell’onda contro la chiglia
del pirata Barbanera, ho sentito
il rumore cupo e incessante della vita
attraverso un’ecografia e
stormire, frinire, garrire, latrare.
Appoggiata al tuo petto,
ho sentito tutto questo.

L’opera, nella sua interezza, è un esempio di bella poesia contemporanea, di quella capace di scuotere le coscienze intorpidite e scardinare modelli di vita lobotomizzati.

di Emilia Barbato


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