di Franca Alaimo*
Antonino Contiliano, Ero(s)diade / La binaria dell’asiento, Quaderni di “Collettivo R / Atahualpa”, Firenze 2010, pp. 86.
Contiliano appartiene a quella schiera di scrittori che, passando ad occhi aperti sul corpo melmoso e sanguinante del reale, non smette di nutrire prossime utopie: non è forse contenuta nello stesso titolo del suo poemetto (concepito come un attraversamento per tappe – i singoli testi titolati – del mondo di ora e di qui ) la risposta all’ “ero diade”?
Quella “s” incapsulata non chiede di essere liberata dalle sue parentesi come dalle sbarre di una gabbia? E, infatti, così facendo, chi legge trova la formula magica: l’eros. Nulla di nuovo. Nulla, se non ci occupassimo del “come”, cioè del mezzo attraverso il quale viaggiano le idee dell’autore; dei legami fra il suo stato di osservatore, realtà osservata ed il disegno complessivo della nuova mappa tracciata.
Contiliano comincia con il fare esplodere il mezzo usuale: la lingua, mescolando insieme la ferocia del ribelle e la tenerezza dell’innamorato che sogna l’altra lingua possibile, capace di traghettare l’umanità verso nuovi, migliori traguardi, così che nella distruzione scintillino già i semi della ri-costruzione. Contiliano afferra tutto il corpo della lingua, ammucchiandone le parti disperse, perse, obliate, le chiede golosamente al tempo ed allo spazio, includendo versi, sintagmi, titoli che rimandano a scrittori, saggi, film libri e quant’altro del passato prossimo e remoto; e inoltre accogliendo termini e sintagmi d’altre lingue, specie dall’aria scientifica e mass-mediale, dell’ieri e dell’oggi.
E’ un’operazione erotica di esplorazione della lingua caratterizzata dallo stesso ardore ed accensione dei sensi di un amante che percorra senza stancarsi il corpo della donna amata. Questo mi pare il senso di almeno metà dei testi che compongono “Ero (s) diade”, ché, in essi, inventando un nuovo modello di poesia d’amore, frangendo e sommuovendo, ma senza azzerarlo, il tono lirico, Contiliano dà voce, sì, ad una storia intima d’amore; ma, con stupore, per stupore, seguendo un suo interiore tracciato, finisce con il far coincidere quel corpo di donna con quello stesso della poesia e della lingua, che si frastagliano e si moltiplicano in emozionate vibrazioni, salti di fantasia, insoliti congiungimenti, dialoghi e scontri: uno + uno e poi unità di due, nel tentativo di annullare i confini. E’, in definitiva, questo il suo modo di guardare il mondo; se l’altro smette di essere lontano, se si approssima fino al contatto più intimo, si torna all’unità.
Ma è l’utopia, l’utopia! Da tenere alta, certo, soprattutto contro quella falsa ed universalmente veicolata nella gabbia del mondo sempre più intrappolato in reti telematiche, radiotelevisive, ideologiche. Quale rete mai dovette gettare Pietro per prendere tanti pesci vivi e lucenti dal lago Tiberiade che pareva del tutto inanimato! Quale rete contro l’apparenza desolata, devitalizzata?
Per questo le maglie della rete linguistica che parlavano pure “bellamente” i farisei andavano rotte, vanno rotte, sempre! Contiliano lo fa in tutti i modi, con grandissima serietà, ma, a volte, si abbandona al gioco, si di-verte, di-verte, tentando toni diversi: l’ironico, l’umoristico, il ludico, separatamente, ma anche insieme in uno stesso testo, in una sorta di grande collage visivo-sonoro.
Ma il lettore non deve distrarsi, perché l’autore fa il gioco, a volte, di quelli stessi che critica, come a dire che nemmeno della poesia e degli scrittori bisogna fidarsi! Attento lettore, da chi ti seduce con le parole come il serpente dell’Eden! E attento, davvero, alla poesia dell’uomo! Perché in questa poesia – lui dice sempre – si parla di te, della realtà che vivi, dei disastri dell’avidità, delle aride leggi di mercato, delle eterne disuguaglianze, di sete, di fame, di sangue, di naufragi: eccoli i nuovi martiri d’oggi! Contiliano li sceglie come compagni di viaggio del suo dire, dando loro lo spazio di copertina (l’acrilico è di Giacomo Cottone), dove sperano disperando tra il blu del mare, il rosso che è sangue di morte, sangue di un sole che tramonta o sorge, non si sa; e il verde di una promessa, un’isola lontana, che è la loro utopia.
Dopotutto “la poesia e l’utopia sono in trappola?” si chiede Luca Rossi che sembra commentare con la sua poesia in quarta di copertina il libro dell’amico, a cui, appunto si rivolge. E la parola da ripetere con lui, con loro, è “presente!”, perché, infine, ciò che vuole dimostrare Contiliano è l’esserci, qui, ora, con le uniche armi a sua disposizione: “i versi e gli sberleffi”
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