C’è un momento, appena percettibile, quando lo alzo per caricarmelo addosso, in cui sento che sta in un limbo dal quale il suo inconscio e il suo sentire non hanno ancora preso posizione verso la mia invadente presenza.
Potrebbe urlare, picchiarmi, staccarmi le orecchie a morsi o scalciare, ma invece accade qualcosa, una piccola cosa della quale io non riesco a focalizzare né il nucleo né i confini, ma sento che accade, ne percepisco la vibrazione. È l’attimo in cui il suo sonar interno scandaglia le mie braccia, il mio corpo e la mia pelle e riconsegna al comando centrale una risposta.
Un esito per niente scontato, elaborato dai suoi ricettori olfattivi (forse), uditivi (forse), e tattili (forse).
Anche se quello che mi piace pensare è che la decisione di mollare gli ormeggi e abbandonarsi al mio abbraccio confortante e sicuro, la decisione di stringermi forte pur non aprendo gli occhi, altro non sia che il moto di un istinto, di un’identità genetica e di una comprensione che va oltre il babbo compagno di giochi e si avvicina con un’iperbole al riconoscimento della propria madre.
Ecco, è quello il momento che riesco a immaginare più vicino a sentirsi mamma.