Il maestro Matteo
13, Mercoledì
Non furon che due giorni di ponte e mi parve di star tanto tempo senza rivedere il maestro Matteo. Quanto più lo conosco, tanto più gli voglio bene, lo voto e non perdo mai le sue lezioni con gessetto e lavagna, e così segue a tutti gli altri alunni, fuorché ai prepotenti e gli impresentabili nelle liste bloccate dell’Italicum, che con lui non se la tirano, perché egli non lascia far inciucci. Ogni volta che un DEM alza la mano su di un renziano, il renziano grida: – Maestro Matteo! – e il DEM non picchia più. Egli cominciò tardi le scuole (e si vede), ma solo perché fu tentato dalla Democrazia Cristiana e perché doveva partecipare a “La Ruota della Fortuna” di Mike Bongliorno. È il più alto e il più forte del corpo docente, alza uno scranno di Montecitorio con una mano, mangia sempre e ha solo una modesta pancetta, è buono. Qualunque cosa gli domandino, matita, gomma, carta, temperino, dirigenza nelle partecipate pubbliche, posto da ministro o sottosegretario senza portafogli impresta o dà tutto; e non sparla e non ride in iscuola solo se lo invita Vespa e in tutti gli altri luoghi: se ne sta sempre immobile nello scranno troppo stretto per lui, con la schiena arrotondata, il testone dentro le spalle, l’occhio birbone che non perde mai di vista la telecamera che lo tallona sempre; e quando lo guardo, mi fa un sorriso con gli occhi socchiusi come per dirmi: – Ah, Enrico, che miglior effetto avremmo avuto se fossi seduto su un trono e che grande maestro morirà con me! – Ma fa ridere, biricchino e dinocolato com’è, che ha giacchetta, calzoni, maniche, tutto troppo firmato e troppo elegante, senza cappello che nasconderebbe la chioma dorata, le scarpe nere e lucide, e una cravatta sempre attorcigliata come una corda. Caro maestro Matteo, basta guardarlo in viso una volta per prendergli affetto. Tutti i forzisti vorrebbero andare a lezione da lui. Sa a memoria i bilanci della Fininvest e le arringhe del dottor Ghedini. Porta gli emendamenti pentastellati legati con una cigna di cuoio rosso. Ha un cellulare color madreperla che trovò l’anno passato in visita ad Apple, e un giorno si prese una piccola scossa, ma nessuno in Aula se n’avvide, e a casa non rifiatò per non spaventare i parenti. Qualunque cosa si lascia dire per celia e mai non se n’ha per male; ma guai se si addormentano davanti a lui mentre spiega alla lavagna: getta fuoco dagli occhi allora, e martella pugni da spaccare il banco. Sabato mattina diede un rimborso pensionistico a uno di Scelta Civica, che piangeva in mezzo al Transatlantico, perché gli avevan preso il suo, e non poteva più comprare l’ipad. Ora sono tre mesi che sta lavorando attorno a una riforma scolastica di otto pagine con ornati a penna nei margini per l’onomastico di Berlinguer, che spesso gli appare in sogno e celiando lo rimprovera. Il Presidente, pardon, il preside lo guarda sempre, e ogni volta che gli passa accanto gli batte la mano sul collo come a un buon democristiancello doroteo e tranquillo. Io gli voglio bene. Son contento quando stringo nella mia la sua mano curata, che par la mano d’un grande uomo. Sono così certo che rischierebbe la vita per salvare un compagno… pardon, un alunno, che si farebbe anche ammazzare per difenderlo, basta che il sangue non gli zampilli sulla camicia firmata e non debba lavorare, si vede così chiaro nei suoi occhi; e benché voglia sempre rottamare gli altri tanto gentile e tanto onesto pare.