Ernest Rutherford (1871-1937)
di Michele Marsonet. In un articolo uscito tempo fa su “La Repubblica” ho ritrovato la citazione di una celebre frase del fisico Ernest Rutheford (1871-1937): “La fisica è l’unica vera scienza; tutto il resto è collezione di francobolli”. Ma è davvero così? Le scienze empirico-naturali (e specialmente la fisica) hanno alle spalle una lunga tradizione e una storia di brillanti successi intellettuali. Di conseguenza esse hanno influito notevolmente sulla nostra concezione della “scienza” in quanto tale: le loro caratteristiche tendono a essere considerate come criteri ai quali ogni disciplina che voglia definirsi scientifica deve adeguarsi. Invece i risultati conseguiti dalle discipline umane e sociali sembrano, con poche eccezioni, piuttosto scarsi. Ne deriva che, da un lato, c’è una forte aspirazione a realizzare un corpo di conoscenza “scientifica” della vita sociale, comparabile quantitativamente e qualitativamente alla nostra conoscenza scientifica della natura, mentre dall’altro esistono dubbi altrettanto forti sulla possibilità che la vita sociale sia effettivamente un oggetto di studio che si presti a tale modello di analisi.
Dunque il successo delle scienze empirico-naturali è all’origine della disputa – tuttora aperta – sulla loro capacità di fornire un modello valido per quelle sociali. Vi sono, in effetti, motivi per ritenere che esse siano in grado di farlo. Tutte le scienze – si può sostenere – hanno per definizione lo stesso compito, cioè quello di descrivere e spiegare i fenomeni nel modo più completo che i fatti consentono. D’altra parte la fisica, diversamente dalle scienze umane, non si occupa degli “individui” in quanto tali. Gli individui hanno naturalmente un aspetto fisico, e considerati semplicemente come corpi sono sottoposti alle leggi fisiche come ogni altro corpo; ma gli individui considerati come “persone” si comportano in modi che non sembra si possano derivare da queste leggi. E poiché il comportamento degli individui (considerati come persone) costituisce l’oggetto di studio delle scienze sociali, il modello della fisica è, ad avviso di molti, inadeguato sotto parecchi aspetti, poiché gli individui non possiedono soltanto un corpo, ma anche – almeno secondo l’opinione più diffusa – una “mente” consapevole.
L’idea del “sociale” è connessa al fatto che gli esseri umani sono in rapporto tra loro. Queste relazioni si manifestano nell’interdipendenza delle loro azioni: l’esistenza di un fenomeno sociale implica un qualche modello basato su azioni “interdipendenti”. Tuttavia è opinabile che l’identificazione e la classificazione dei fenomeni sociali debba procedere con gli stessi metodi di osservazione empirica che sono usati nelle scienze naturali per identificare e classificare gli oggetti. I fisici registrano le caratteristiche osservabili come forma, dimensione, posizione etc. Si tratta di caratteristiche percepibili ai sensi e, secondo questa prospettiva (che possiamo definire “empirismo sociale”) gli scienziati sociali dovrebbero fare altrettanto. Ma se la scienza sociale si occupa di individui, la prospettiva empirista deve in qualche modo trattare dei fenomeni della mente umana, ossia di credenze, desideri, scopi, intenzioni, principi morali, valori; questi ultimi appaiono strettamente connessi con le loro azioni (e interazioni), ma privi tuttavia di quelle caratteristiche che gli empiristi ritengono le sole di cui la scienza possa tener conto.
In realtà la nozione di una mente non suscettibile di indagine mediante metodi empirici evoca un senso di mistero. Se la mente non può essere indagata in quel modo, che cosa si può dire di essa? Quale controllo oggettivo possiamo ottenere circa la validità dei resoconti che la riguardano? Può anche darsi che un individuo riesca sempre a conseguire, in linea di principio, una conoscenza soddisfacente di una mente empiricamente inosservabile (la propria), che cioè conosca direttamente i propri desideri, intenzioni, credenze e principi, anche se gli altri non possono accedervi direttamente. Ma questo, anche qualora fosse vero, non risolverebbe il problema. La scienza si occupa della conoscenza “pubblica” (inter-soggettiva). Al suo interno la testimonianza di un solo individuo non può essere accettata; qualsiasi asserzione dev’essere aperta al controllo di tutti i membri della comunità interessata. In ogni caso, la testimonianza sul contenuto di particolari menti da parte di coloro che le possiedono spesso non è disponibile agli scienziati sociali.
Vi è tuttavia un altro approccio, oggi piuttosto popolare, che attribuisce invece importanza primaria agli aspetti specifici e particolari delle varie culture, sostenendo che il vero compito dell’indagine sociale è l’interpretazione delle pratiche dotate di significato. Si manifesta allora un’antitesi radicale tra “spiegazione” da un lato e “comprensione” dall’altro. La spiegazione si basa sulla capacità di identificare le cause generali di un evento, mentre comprendere significa scoprire il “significato” di un evento (o di una pratica) all’interno di un particolare contesto.
In questo caso si trattano i fenomeni sociali come “testi” (si pensi per esempio a un testo letterario) che devono essere decodificati mediante la ricostruzione – basata sulla nostra immaginazione – della significanza dei vari elementi che fanno parte di un’azione. Non è difficile capire che, adottando tale visione, le scienze sociali e quelle naturali sono radicalmente diverse, giacché le prime dipendono inevitabilmente dal processo interpretativo – tipicamente umano – del comportamento significante e delle pratiche sociali che su tale comportamento sono fondate. In altri termini, la scienza naturale si occuperebbe di processi causali oggettivi, mentre quella sociale riguarderebbe azioni e pratiche significanti. Soltanto i processi causali possono essere spiegati e descritti oggettivamente; azioni e pratiche richiedono invece interpretazione e comprensione. Per riassumere: la spiegazione è l’obiettivo delle scienze naturali, e la comprensione è lo scopo di quelle sociali.
Un resoconto adeguato dell’azione umana dovrebbe pertanto rendere comprensibile ciò che gli individui fanno; da un simile punto di vista, lo scopo delle scienze sociali non può ridursi alla predizione di eventi, siano essi considerati isolatamente o inclusi in modelli; una spiegazione soddisfacente deve dare un senso alle azioni degli individui. Per riassumere: 1) le azioni e le credenze individuali possono essere comprese “soltanto” mediante una procedura interpretativa, grazie alla quale si può scoprire il loro significato; 2) tra le varie culture si manifesta una radicale diversità circa il modo in cui la vita sociale viene concettualizzata, e tali differenze generano mondi sociali diversi; 3) le pratiche sociali (promesse, regole lavorative, legami di parentela, etc.) sono costituite dai significati che i partecipanti attribuiscono a esse; e 4) non esistono “fatti bruti” nella vita sociale, cioè fatti che non rimandino a specifici significati culturali.
Se è così gli esseri umani sono individui che attribuiscono alla dimensione simbolica della vita un ruolo essenziale, e agiscono in base alla loro capacità di interpretare la realtà circostante. La comprensione è a sua volta fondata su fattori quali: (a) una rappresentazione del mondo (sia naturale che sociale) nel quale si trovano a vivere; (b) un insieme di valori e di scopi che caratterizzano i loro bisogni; (c) un complesso di norme che fissano i limiti oltre i quali un’azione diventa trasgressiva; (d) una concezione dei loro poteri e delle loro capacità. Diventa quindi necessario descrivere i valori, le visioni del mondo e le assunzioni di fondo riferendosi sempre, tuttavia, a una particolare cultura o a un certo gruppo sociale. Fornire l’interpretazione di un’azione significa descrivere un contesto culturale e lo stato d’animo dell’agente (o degli agenti) così da rendere intelligibile a noi le sue (o le loro) azioni. Interpretare è discernere il significato di una pratica sociale entro un sistema di simboli e rappresentazioni culturali.
Più che di “spiegazione” (come fanno gli empiristi), si deve quindi parlare di “comprensione esplicativa”: cioè una comprensione razionale della motivazione, la quale consiste nel collocare l’azione in un più vasto contesto di significati. Max Weber usa spesso il termine “empatia” per caratterizzare tale processo, ma non ipotizza l’esistenza di una facoltà autonoma che consentirebbe di interpretare lo stato d’animo dell’agente. Si tratta piuttosto di prendere in considerazione i possibili propositi, valori e credenze in grado di generare l’azione, cercando poi di determinare, attraverso l’evidenza diretta o indiretta, se l’interpretazione è corretta o meno. Il metodo della comprensione, pertanto, è basato in primo luogo sulla formazione di ipotesi; tramite esse lo scienziato sociale formula una congettura circa lo stato d’animo dell’agente, e poi cerca di verificare la validità della propria congettura osservando le azioni e le espressioni verbali di colui che agisce.
Si deve infine notare la preferenza per la “specificità” culturale manifestata dai teorici dell’interpretazione. Essi insistono sulla fondamentale variabilità culturale dei significati umani, cosicché dal loro punto di vista risultano inutilizzabili tutti i resoconti che astraggono dai tratti tipici della cultura che viene esaminata. Non vi sono elementi universali (trans-culturali) che ci mettano in grado di confrontare a colpo sicuro gruppi e società diversi, e le generalizzazioni privilegiate dagli empiristi altro non fanno che condurre lo scienziato sociale fuori strada.