Douglas Noël Adams (1952-2001)
Mi son letto “Il Salmone del Dubbio”, una raccolta postuma di bozze, scritti, articoli e discorsi di Douglas Adams (l’autore della famosissima trilogia in cinque volumi della Guida Galattica per Autostoppisti). A parte il rimpianto, anzi no, la rabbia di non aver più una mente geniale come la sua a illuminare la vita, l’universo e tutto quanto, mi è rimasto impresso uno suo intervento tenuto al convegno “Digital Biota 2″ a Cambdridge nel settembre 1998 (qui l’originale in inglese: http://www.biota.org/people/douglasadams/) , per cui ve lo propongo, anche se è molto lungo…
“Esiste un Dio artificiale?”
di Douglas Noël Adams
In un primo momento questo è stato annunciato come un dibattito perché, venendo qui, ero piuttosto in ansia. Pensavo che non avrei avuto il tempo di preparare un discorso e all’idea di trovarmi in una sala gremita di cervelloni mi chiedevo: “Che cosa potrò mai dire io, un semplice dilettante?”. Così ho riflettuto che forse conveniva limitarsi a un dibattito. Adesso però che sono qui da due giorni, mi sono reso conto che siete solo una compagnia di persone! Il clima è intellettualmente molto stimolante e, parlando con la gente e ascoltandola, sono venute anche a me così tante idee che ho deciso di argomentare innanzitutto con me stesso. Farò quindi un discorso, e spero di provocarvi e infiammarvi a tal punto da indurvi a tirarmi le sedie.
Prima di iniziare, vorrei avvertirvi che forse a volte perderò il filo, perché qui oggi sono state dette così tante cose che se ogni tanto il bandolo si smarrirà… Poco fa parlavo con qualcuno della mia bambina di quattro anni e spiegavo che un giorno, quando aveva due o tre settimane di vita, guardandola in faccia mi resi conto di una cosa di cui nessuno si era mai reso conto nelle epoche precedenti: stava riavviando il programma!
Desidero ricordarvi una cosa, che è del tutto irrilevante, ma di cui sono orgogliosissimo: sono nato a Cambridge nel 1952 e le mie iniziali sono D.N.A.! [Douglas Noël Adams]
L’argomento di cui vorrei parlarvi questa sera, ovvero il tema del dibattito che alla fine non faremo, è un argomento apparentemente frivolo che vi stupirà, ma che ci porterà lontano: “Esiste un Dio artificiale?”. Senza dubbio le persone convenute in questa sala sono quasi tutte scettiche in tema di divinità, ma anche se si è atei convinti non si può fare a meno di osservare che il concetto di dio ha avuto un’influenza profondissima su secoli e secoli di storia umana. Credo sia importante cercare di capire da che cosa tragga origine tale concetto e che significato possa assumere nel mondo scientifico in cui, spesso e volentieri, ci illudiamo di vivere.
Ho riflettuto su questo oggi pomeriggio, quando Larry Yaeger ha parlato sul tema: “Che cos’è la vita?” e ha accennato alla fine ad alcuni aspetti dei sistemi di riconoscimento calligrafico di cui non sapevo nulla.
La risposta alla domanda fondamentale
sull’universo, la vita e tutto quanto.
Lo strano pensiero che mi è venuto subito dopo è stato: cercare di capire che cosa sia o non sia la vita e dove stia il confine tra organico e inorganico ha un’interessante correlazione con il sistema di riconoscimento della scrittura. Tutti noi, davanti a una particolare entità, sappiamo se si tratta di un grumo di muffa del nostro frigo o di un’altra cosa: distinguiamo istintivamente ciò che è vivo da ciò che non lo è. Ma è assai difficile definire esattamente ciò che è vivo. Ricordo che una volta, tanto tempo fa, avevo bisogno di una definizione della vita per un discorso che dovevo fare e, supponendo vi fosse una definizione semplice, la cercai in Internet. Rimasi sbalordito vedendo la grande diversità delle definizioni e l’esasperata meticolosità con cui ciascuna includeva “questo” e non “quello”. A pensarci bene, una serie di esseri viventi composta da un moscerino della frutta, Richard Dawkins e la Grande barriera corallina renderebbe piuttosto ostico il confronto tra gli oggetti. Quando cerchiamo di capire ciò che caratterizza la vita, risulta molto, molto difficile trovare una regola che sia indiscutibilmente valida.
Se confrontiamo questa difficoltà con la difficoltà di distinguere A da B e B da C, vediamo che si tratta di un processo; analogo, ma anche molto diverso. Nel caso della vita, infatti, tutto è più sfumato. Di una cosa possiamo dire che “non sappiamo bene se sia viva o no, è giusto al confine tra le due sponde, forse è un esempio inferiore di quella che potremmo definire vita, in poche parole sembra a malapena viva e, anzi, a pensarci bene forse non è affatto viva”. Guardando un esempio di vita digitale, potremmo chiederci: “Si può reputare vivo?”. Per citare uno dei precedenti oratori, è una cosa che si schiaccia se la calpestiamo? Pensiamo alla controversa ipotesi di Gaia. La gente si chiede: “Il pianeta è vivo?”; “L’ecosfera è viva?”. La risposta dipende naturalmente dalla definizione di “vita”.
Prendiamo invece il problema di riconoscere la scrittura, che consiste in pratica nel domandarsi: “Questa è una a o una b?” La gente scrive le a e le b in modi diversi: con svolazzi, ghirigori e così via. Non diremmo mai: “Parrebbe una a, ma ha anche qualcosa della b”, perché non si può scrivere la parola “arancia” con la b. O è una a o è una b. Come facciamo a scegliere? Quando cerchiamo di riconoscere una scrittura, non valutiamo i gradi relativi di “qualità a” o “qualità b” della lettera, ma definiamo l’intenzione di chi l’ha scritta. La risposta alla domanda: “È una a o una b?” è chiarissima, perché chi ha scritto ha scritto la parola “arancia” e dunque è evidente che voleva usare una a e non una b. In mancanza di un creatore intenzionale, quindi, non possiamo realmente stabilire che cosa sia la vita, perché che cosa sia dipende solo da quale serie di definizioni includiamo nella definizione generale. Senza un dio, la vita è solo questione di opinione.
Vorrei concentrare l’attenzione su altre due o tre cose a cui mi è capitato di pensare oggi. Mi ha affascinato (ancora una volta) Larry quando ha parlato della tautologia, la quale rappresenta un problema che mi lasciò interdetto in passato e che non seppi risolvere proprio in quanto ero interdetto. Qualcuno mi disse: «Sì, ma l’intera teoria evoluzionistica si basa su una tautologia: “Tutto ciò che sopravvive, sopravvive”». “Tutto ciò che sopravvive, sopravvive” è una proposizione tautologica e quindi non significa niente. Riflettei un poco sulla faccenda e alla fine mi dissi che la tautologia è priva di significato in quanto non solo non ha informazioni in ingresso, ma non ne ha neppure in uscita. La tautologia della vita, invece, è unica e consente di avvicinarsi alla risposta definitiva: questa tautologia è l’unica cosa, l’unica forza – forse la più potente tra tutte quelle di cui abbiamo cognizione – che non richieda altro input, altro supporto esterno e che, pur essendo lampante e quindi tautologica, ha effetti straordinari. È difficile trovare una forza altrettanto importante ed è per questo che le ho dedicato l’epigrafe in uno dei miei libri. L’ho ridotta all’essenza pura, che è molto simile al concetto esposto da Larry poche ore fa, e cioè: “Qualunque cosa accada, accade, qualunque cosa, accadendo, ne faccia accadere un altra, ne fa accadere un’altra e qualunque cosa, accadendo, si faccia riaccadere, riaccade”. In realtà non ci sarebbe neppure bisogno della seconda e della terza frase, che sono ovvi corollari della prima, la quale è lampante e autoconclusiva: tutto il resto deriva da essa. Siamo dunque davanti a una verità fondamentale e definitiva, che non può essere confutata. Tale verità fu sottolineata dal tizio che disse che la teoria evoluzionistica era una tautologia. Sì, lo è, ma è una tautologia unica, in quanto non ha bisogno di dati in ingresso, mentre produce una quantità infinita di dati in uscita. Personalmente la giudico la causa prima di tutto quanto esiste nell’universo. Mi rendo conto che è un’affermazione impegnativa, ma ritengo di stare parlando a un pubblico avvertito.
Come nasce l’idea di dio? È indubbio che abbiamo convinzioni balorde su innumerevoli cose, ma proviamo a vedere da che cosa derivino. Immaginiamo l’uomo primitivo. Come tutti gli altri organismi, è una creatura evoluta che vive in un mondo di cui si fa sempre più carico: ha cominciato a fabbricare arnesi, ha modificato l’ambiente con gli arnesi che si è fabbricato e ha finito per fabbricarli con il preciso intento di modificare l’ambiente. Confrontiamo il suo modus operandi con quello di altri animali. Prendiamo per esempio la speciazione, che, come sappiamo, si verifica quando un gruppo di animali si separa dal resto del branco a causa di sconvolgimenti geologici, pressione della popolazione, carenza di cibo e altri fattori e si ritrova in un nuovo ambiente in cui è esposto a influenze diverse. Facciamo la semplice ipotesi che un branco di animali finisca all’improvviso in una terra in cui il clima è assai più rigido. Nel giro di alcune generazioni i geni che favoriscono un manto più fitto prenderanno il sopravvento e tutti gli individui avranno pellicce più spesse. L’uomo primitivo, che è un fabbricante di utensili, non è costretto a questo lungo adattamento: può avere una gamma vastissima di habitat terrestri, dalla tundra al deserto del Gobi – riesce a vivere perfino a New York, Dio santo! – e la può avere perché, quando si ritrova in un ambiente nuovo, non è obbligato ad aspettare per molte generazioni la mutazione genetica. Se arriva in un ambiente più freddo e vede un animale che ha i geni responsabili della pelliccia fitta, dice: «Mi prendo la sua pelliccia». Gli utensili ci hanno consentito di pensare intenzionalmente, di creare e fare cose che hanno reso il mondo più adatto a noi. Immaginiamo adesso un uomo primitivo che, dopo avere passato felicemente la giornata a fabbricare arnesi, esplori il suo ambiente. Si guarda intorno e vede un paesaggio gradevolissimo: ha alle spalle delle montagne alte e piene di grotte, che sono appunto alte e piene di grotte perché lui possa trovare rifugio dalla pioggia e dagli orsi; ha davanti la foresta, ricca di noci e bacche e piante deliziose; ha alla sua destra un torrente gonfio d’acqua buonissima, sul quale oltretutto si può viaggiare con la barca e fare altre cose utili; e ha infine alla sua sinistra il cugino Ug, che ha catturato un mammut, una bestia fantastica, perché la si può mangiare, se ne può usare la pelle per vestirsi e se ne possono usare le ossa per fabbricare armi con cui catturare altri mammut. Ah, sì, è un gran bel mondo, un mondo stupendo. Ma in un momento di riflessione il nostro uomo primitivo, dopo aver pensato: “Che mondo interessante ho intorno a me!” si pone una domanda molto insidiosa, una domanda del tutto insensata e ingannevole, che però gli sorge spontanea proprio perché egli ha quella certa natura ed è stato trasformato dall’evoluzione in un individuo di quella natura, un individuo che prospera perché pensa in quel certo modo. “Chi ha fatto tutto questo?” si chiede. Ed è facile capire perché la domanda sia insidiosa. L’uomo primitivo pensa: “Poiché mi risulta ci sia una sola creatura che fabbrica utensili, chiunque abbia creato tutto questo deve essere molto più grande e potente di me e deve essere invisibile, perché se fosse visibile lo vedrei; e siccome io sono più forte della femmina e fabbrico arnesi e vado a caccia eccetera, è probabilmente un maschio”. Ecco dunque come nasce l’idea di dio. Poiché inoltre, quando crea cose, le crea con l’intenzione di usarle a qualche scopo, l’uomo primitivo si domanda: “Se questo tizio ha creato il mondo, per quale scopo lo ha creato?”. E a questo punto scatta una vera e propria trappola che lo induce a pensare: “Questo mondo mi si adatta perfettamente. Mi offre tante possibilità di nutrirmi e sostentarmi e ripararmi, per cui è evidente che è fatto apposta per me”. E arriva all’inevitabile conclusione che, chiunque lo abbia creato, lo ha creato per lui.
Pozzanghera senziente
Immaginatevi una pozzanghera che una mattina si svegliasse e dicesse: “Che mondo interessante, quello in cui mi trovo: uno splendido buco perfettamente adatto a me. Anzi, mi si confà a tal punto che dev’essere stato creato apposta per me!”. L’idea è così allettante che quando il sole diventa alto nel cielo e l’aria si riscalda e a poco a poco l’acqua evapora, la pozzanghera continua a pensare pervicacemente che tutto andrà bene, perché quel mondo è stato costruito per lei ed è destinato a lei; e nel momento in cui scompare si sbalordisce. Evitiamo di fare come la pozzanghera. Sappiamo tutti che a un certo punto l’universo finirà e che molto prima di allora – benché in un futuro ancora lontano – il sole esploderà. Quel momento ci pare così remoto che non ce ne preoccupiamo, ma è un grosso rischio affermare che non vale la pena curarsene. Guardate quante paure abbiamo adesso per ciò che succederà ai nostri computer il 1 ° gennaio 2000: eppure sapevamo bene che il secolo sarebbe terminato! Credo che, se vorremo sopravvivere nel lungo periodo, dovremo considerare secondo un’ottica più ampia il problema di chi siamo e che cosa ci facciamo su questo pianeta.
Certo, la nostra ottica è viziata dalla bizzarria della nostra condizione. Pensare che sia normale vivere in fondo a un pozzo gravitazionale sulla superficie di un pianeta che, avvolto nei gas, gira attorno a una palla di fuoco nucleare lontana centoquarantanove milioni di chilometri significa chiaramente avere una prospettiva abnorme; ma durante la storia della civiltà ci siamo spesso sforzati di correggere alcuni nostri errori di comprensione. Curiosamente, molte delle correzioni sono legate alla sabbia, sicché parlerò ora delle quattro età della sabbia.
Con la sabbia facciamo il vetro, con il vetro facciamo le lenti e con le lenti facciamo i telescopi. Quando, puntando il telescopio contro il cielo, grandi astronomi del passato come Copernico e Galileo scoprirono che l’universo era diversissimo da come si credeva fosse, che la Terra non era il centro dell’universo attorno a cui ruotava qualche corpo celeste, ma, al contrario (e ci volle tantissimo tempo perché il concetto attecchisse), un sassolino orbitante intorno a una piccola palla di fuoco nucleare, che questa palla era solo una delle miriadi di palle costituenti la nostra galassia, che la nostra galassia era una delle miriadi di galassie costituenti l’universo e che infine non era escluso vi fossero miriadi di universi, dovemmo leggermente modificare la convinzione che il cosmo fosse di nostra proprietà. Mi piace l’ipotesi dei molti universi e, come dicevo oggi con qualcuno, da poco ho letto sull’argomento La trama della realtà, di David Deutsch, un bellissimo saggio in cui l’autore analizza il concetto di universo multiplo o “multiverso” previsto dalla teoria quantistica. L’idea del multiverso si basa sulla dualità onda-particella tipica della radiazione elettromagnetica, cioè sul fatto che i quanti di luce si comportano ora come onde ora come particelle e non si possono misurare come onde quando si comportano come onde o come particelle quando si comportano come particelle. A che è dovuto il fenomeno? Se si immagina che l’universo sia uno strato e che dall’uno all’altro capo dello strato vi sia un’infinita molteplicità di universi, non solo si dà una risposta all’interrogativo, ma l’interrogativo, dice Deutsch, cessa di avere senso. Se infatti le condizioni fossero quelle sopra descritte, la luce si comporterebbe esattamente come si comporta. La meccanica quantistica ha buoni motivi per sostenere che l’universo è un multiverso, ma come esseri umani facciamo molta fatica a credere che esistano davvero infiniti universi.
Questo ci riporta a Galileo e al Vaticano. Perché il Vaticano disse in sostanza a Galileo: «Noi non mettiamo in discussione la tua analisi, ma solo la visione che elabori in base a essa. Di’ pure che i pianeti girano in tondo, che è come se la Terra fosse un pianeta, che tutti questi pianeti ruotano intorno al sole; di’ pure che è come se accadesse questo, ma non dire che accade davvero questo, perché siamo noi gli esclusivi detentori della verità universale e perché, francamente, le tue idee ci sembrano molto poco credibili». Ecco, ho l’impressione che l’ipotesi degli universi multipli sia ritenuta oggi altrettanto improbabile di quella galileiana nel Seicento; e invece potrebbe essere giusta e rappresentare l’ennesimo ridimensionamento che, dopo tutti i ridimensionamenti passati, dobbiamo imparare ad accettare.
Una delle caratteristiche di questo modello è che – fatto piuttosto inquietante – l’universo risulta composto praticamente di nulla. Ovunque si guardi non vi è nulla: solo, ogni tanto, un piccolo, piccolissimo frammento di roccia o luce. Eppure, osservando il comportamento di questi puntolini nel grande nulla, si individuano determinate leggi e determinati principi, come la legge della gravitazione universale e così via. Questa è dunque la visione macroscopica dell’universo cui si è pervenuti nella prima età della sabbia.
L’età successiva ha visto l’esplorazione spostarsi nel mondo microscopico. Dotammo i microscopi di lenti di vetro e cominciammo ad analizzare l’infinitamente piccolo. Capimmo così che, se si scendeva a livello subatomico, anche il mondo solido in cui vivevamo era composto – fatto piuttosto inquietante – praticamente di nulla e, ovunque si trovasse qualcosa, questo qualcosa non risultava essere realmente qualcosa, ma solo la probabilità che ci fosse qualcosa.
Sia l’uno sia l’altro sono universi estremamente ingannevoli. È davvero preoccupante e diciamo pure sconvolgente tutto questo nulla per il senso di identità di esseri umani grandi, grossi e importanti che sono convinti di vivere in un universo fatto apposta per loro. Perché tutto questo nulla inficia l’idea che l’universo sia fatto per loro. Certo, continuiamo a individuare nel nulla che ci circonda vari principi e leggi fondamentali e abbiamo scoperto che cosa sono la gravità, l’interazione nucleare forte, l’interazione nucleare debole, la natura della materia e delle particelle e così via; ma pur avendo compreso questi fondamenti, continuiamo a non capire bene come funziona la faccenda, perché la matematica è ostica. E allora tendiamo a elaborare una visione sostanzialmente meccanicistica del funzionamento delle cose, perché più in là di così la nostra matematica non ci porta. Non intendo certo sminuire Newton, che è stato il primo a riconoscere che la natura è governata da principi nient’affatto evidenti. La prima legge del moto, che dice che un oggetto permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme finché una forza esterna non modifica il suo stato, è una legge di cui noi, immersi in un pozzo gravitazionale e circondati da un involucro di gas, non ci eravamo resi conto, perché tutto ciò che muoviamo prima o poi si ferma. Solo studiando, osservando, misurando con cura le cose e ragionandoci sopra Newton riuscì a elaborare le leggi del moto che oggi tutti conosciamo; ma, in base ai parametri moderni, la sua visione dell’universo è piuttosto meccanicistica. Ripeto, lungi da me l’idea di sminuirlo, perché, come sappiamo tutti, conseguì risultati eccezionali, tuttavia non si può negare che il suo modello sia insoddisfacente.
Oltre a conoscere particelle, forze, tavoli, sedie, rocce e via dicendo, conosciamo innumerevoli entità quasi invisibili alla scienza; quasi invisibili perché la scienza non ha assolutamente nulla da dire al loro riguardo. Mi riferisco ai cani, ai gatti, alle mucche e a noi stessi. Noi esseri viventi siamo al di là del raggio d’azione della scienza e perfino al di là della nostra capacità di riconoscerci come possibili oggetti di studio della scienza.
La leggenda vuole che la gattaiola sia stata
inventata da Isaac Newton, che fece un buco
nella porta di casa perché il gatto potesse
uscire da solo. Ma il gatto continuò a uscire
solo insieme alla madre di Isaac… I gatti sono
ben più complessi da capire della gravità!
Mi immagino Newton seduto a elaborare le leggi del moto e a cercare dì capire la natura dell’universo e mi immagino, accanto a lui, un gatto che gironzola per casa. Come mai non sapevamo come funzionasse un gatto? Perché dall’epoca di Newton ci eravamo convinti che per vedere come funzionavano le cose bisognasse smontarle. Se si cerca di smontare un gatto per vedere come funziona, si ottiene per prima cosa un gatto non funzionante. La vita è così complessa che va oltre la nostra comprensione; va talmente oltre la nostra comprensione che decidemmo di considerare gli esseri viventi una diversa classe di oggetti, una diversa classe di materia: la “vita” era per noi dotata di un’essenza misteriosa ed era donata da Dio, unica spiegazione del mistero. La bomba scoppiò nel 1859, quando Darwin pubblicò L’origine delle specie. Impiegammo molto tempo a comprendere e accettare fino in fondo la sua teoria, perché ci appariva improbabile e avvilente: rappresentava infatti un altro duro colpo per noi esseri umani scoprire che non solo eravamo un puntolino insignificante in un universo composto di nulla, ma, ai primordi, costituivamo una misera fanghiglia che era giunta allo stadio umano passando per lo stadio scimmiesco. Non suonava bene. Per giunta, non era possibile verificare con i propri occhi l’attendibilità dell’assunto. In un certo senso Darwin fu come Newton: fu, cioè, il primo a rilevare nel mondo in cui viveva principi fondamentali che non erano affatto evidenti. Bisognava spremersi parecchio le meningi per comprendere la natura dell’evoluzione, visto che non c’erano in giro prove evidenti e affidabili del fenomeno. Ancora oggi, questa mancanza di indizi costituisce un problema piuttosto insidioso quando ci troviamo in presenza di uno scettico che mette in discussione la teoria evoluzionistica e pretende da noi una dimostrazione concreta: è difficile trovare un esempio lampante nella realtà quotidiana.
Arriviamo così alla terza età della sabbia, nella quale scopriamo un altro derivato della sabbia: il silicio. Creiamo i chip di silicio e d’un tratto ci si schiude davanti un universo che non è fatto di forze e di particelle fondamentali, ma di ciò che mancava nel quadro da noi elaborato dell’interazione tra forze e particelle: il processo. Il chip di silicio ci consente di eseguire operazioni matematiche a una velocità incredibile e di elaborare il modello di processi molto semplici (come risultano essere) analoghi al processo vitale: iterazione, looping, branching. L’anello di retroazione che sta al cuore di tutto quanto si fa con il computer è al cuore di tutta l’evoluzione biologica. In pratica, lo stadio di uscita di una generazione diventa lo stadio di ingresso della successiva. Di colpo abbiamo trovato un modello funzionante; non l’abbiamo trovato all’inizio, perché le prime macchine erano lentissime e ingombranti, ma con il passare del tempo, quando il computer è stato perfezionato. Se prima l’evoluzione si poteva solo immaginare o dedurre e bisognava avere un cervello finissimo e lucidissimo anche solo per intuirne l’esistenza, visto che era un fenomeno tutt’altro che evidente e anzi antintuitivo (soprattutto per una specie orgogliosa come quella umana), con la simulazione al computer è diventata palese.
L’elaboratore rappresenta il terzo stadio della nostra rappresentazione della realtà, perché ci permette finalmente di vedere come funziona la vita. E uno sviluppo cruciale, questo, perché dimostra che la vita e tutte le forme di complessità non procedono dall’alto verso il basso, ma dal basso verso l’alto, e che il processo ha una sua grammatica nota a chiunque sia abituato a usare il computer. L’evoluzione non è più una cosa strana per chi abbia studiato il funzionamento di un programma di computer e sappia che semplici pezzetti di codice iterativi, composti da semplici linee, danno origine a fenomeni enormemente complessi; e con fenomeni enormemente complessi intendo un programma di word processing oppure un software come Tierra o Creatures.
Ricordo quando, tanti anni fa, lessi per la prima volta un manuale di programmazione. Avevo imparato a conoscere il computer nel 1983 e, siccome volevo saperne di più, decisi di imparare qualcosa sulla programmazione. Comprai appunto un manuale e impiegai una settimana solo a leggere i primi due o tre capitoli. Alla fine della settimana mi trovai di fronte la frase: “Complimenti, adesso avete scritto la lettera a sullo schermo!”. Pensai: “Avrò capito male qualcosa, perché c’è voluto un lavoro enorme, immenso per compiere un passo così piccolo. Cosa dovrò mai fare adesso per scrivere una b?”. All’epoca il processo di programmazione, il mezzo attraverso il quale una grande semplicità genera in poco tempo risultati di enorme complessità, non rientrava nella mia grammatica mentale. Vi rientra invece adesso, come rientra nella grammatica mentale di noi tutti, che siamo ormai abituati al computer.
D’un tratto, quindi, l’evoluzione ha smesso di essere un problema di difficile comprensione. Consentitemi una similitudine. Un martedì un uomo viene visto commettere un atto criminoso in una strada di Londra. A indagare sul delitto sono due detective, uno del Ventesimo secolo e l’altro – grazie alle meraviglie della fantascienza – del Diciannovesimo. Il problema è questo: l’uomo che il martedì è stato visto da testimoni sulla strada di Londra è stato notato quello stesso martedì da testimoni altrettanto degni di fede su una strada di Santa Fé. Com’è possibile? Il detective dell’Ottocento può pensare soltanto a una magia; il detective del Novecento magari non riuscirà ad appurare se il criminale abbia preso un certo volo della British Airways e poi un certo altro volo della United Airlines, e a capire in che modo abbia agito e quale rotta abbia scelto per trasferirsi in America, ma non avrà certo bisogno di ipotizzare una magia. Dirà semplicemente: «E andato a Santa Fé in aereo. Non so con quale aereo e forse non sarà facile scoprirlo, ma non c’è nessun mistero». Nel Novecento tutti sono abituati all’idea del viaggio in jet. Non si sa se l’omicida abbia volato con il BA 178 o con TUA 270, ma è chiaro come ha proceduto. Ebbene, più acquisiremo familiarità con il funzionamento del computer e con il processo attraverso cui la semplicità genera complessità, più, credo, diventerà facile accettare l’idea della vita come fenomeno evolutivo. Forse non sapremo mai quali esatti passi siano stati compiuti in origine, ma conosciamo in sostanza la natura del processo.
Arriviamo così a un interrogativo fondamentale, che per quanto fosse già stato sollevato quando, nel 1859, vi fu il primo shock dell’Origine delle specie, ci siamo potuti porre con ben altra consapevolezza dopo l’avvento del computer: “Davvero l’universo non è strutturato dall’alto verso il basso, ma dal basso verso l’alto? Davvero la complessità può emergere da livelli di estrema semplicità?”. Mi è sempre parso molto strano che si ritenesse un Dio creatore sufficiente a spiegare la grande complessità che vediamo intorno a noi, perché l’idea di dio non spiega da dove sia venuto Dio stesso. Se c’è un progettista, dev’esserci un progetto e ogni cosa da lui progettata o fatta progettare dev’essere, quanto a complessità, sotto il suo livello. Perciò bisognerà chiedersi: “Qual è il livello sopra il progettista?”. Esiste un modello dell’universo con tartarughe che scendono, ma qui abbiamo dèi che salgono: non è un granché, come soluzione. Una soluzione dal basso verso l’alto basata sulla tautologia incredibilmente potente “Qualunque cosa accada, accade”, fornisce invece una soluzione semplicissima ed efficacissima che non ha bisogno di altre spiegazioni.
Ma veniamo al fulcro del mio discorso, ossia alla domanda: “Esiste un Dio artificiale?” e al problema del perché il concetto di dio abbia convinto tanta gente. Ho già spiegato che tale concetto illusorio ha tratto origine da un’ottica fallace; nel maturarla, non abbiamo tenuto conto del fatto che siamo frutto di un’evoluzione, che ci siamo evoluti in un particolare paesaggio e in un particolare ambiente, e che siamo dotati di capacità e strategie grazie a cui siamo riusciti a sopravvivere e prosperare. Ma forse – ed ecco che vengo al punto – vi è un’idea ancora più potente di quella evolutiva, e cioè che il vertice della piramide da cui un tempo credevamo che tutto discendesse non sia vacante, anche se, come abbiamo visto, il flusso non andrebbe dall’alto verso il basso ma dal basso verso l’alto.
Mi spiegherò meglio. Nella realtà in cui viviamo abbiamo creato infinite cose e cambiato il mondo in infiniti modi: è un fatto evidente. Abbiamo edificato la sala in cui siamo attualmente riuniti, abbiamo fabbricato oggetti complessi come i computer e tanti altri congegni, ma abbiamo costruito anche innumerevoli entità immaginarie di eccezionale potenza. Se per caso a un certo punto diciamo di una certa entità immaginaria: «È pessima e assurda e bisogna liberarsene», subito dopo ne creiamo un’altra, come il denaro. Il denaro è un’entità del tutto immaginaria, ma ha un grande potere nel nostro mondo. Tutti possediamo portafogli contenenti banconote, ma che utilità hanno quelle banconote? Non possiamo procrearle, non possiamo saltarle in padella, non possiamo conviverci, non possiamo farci assolutamente nulla di utile, a parte scambiarcele; e appena ce le scambiamo accadono tante cose incredibili, perché è una finzione cui tutti partecipiamo. Non ci chiediamo se tutto ciò sia giusto o sbagliato, buono o cattivo; però è un fatto che, se il denaro svanisse, la nostra intera struttura sociale imploderebbe, mentre se svanissimo noi il denaro si limiterebbe a svanire con noi. Il denaro, insomma, non ha significato al di fuori di noi: è una cosa che abbiamo creato e che ha un forte effetto plasmante sul mondo solo perché è parte integrante di una finzione condivisa da tutti.
Vorrei che qualcuno scrivesse una storia della religione dal punto di vista evoluzionistico, in quanto ho l’impressione che, nel suo svilupparsi nel tempo, la religione abbia messo in atto numerose strategie evolutive. Proviamo a pensare alla corsa agli armamenti che si verifica tra due esseri che vivono nello stesso ambiente, per esempio quella tra il lamantino dell’Amazzonia e una canna di cui esso si nutre. Più il lamantino la mangia, più la canna sviluppa nelle proprie cellule il silice che mette a dura prova i denti del lamantino e più silice c’è nella canna, più forti e grossi diventano i denti del lamantino. Una creatura fa una cosa e l’altra vi oppone resistenza. Come sappiamo, sia nella storia umana sia nella storia dell’evoluzione la corsa agli armamenti ha stimolato nella maniera più potente i meccanismi evolutivi, e anche nel mondo delle idee si vedono accadere cose analoghe.
Senza dubbio tutti conveniamo che la scienza e il metodo scientifico sono lo strumento intellettuale più efficace, il paradigma più potente per indagare, analizzare e comprendere il mondo intorno a noi e tutti conveniamo che questo paradigma parte da un preciso assunto: qualsiasi idea è soggetta all’attacco della critica e, se vi resiste, sopravvive per combattere ancora, mentre se non vi resiste viene sconfitta. Invece la religione non funziona così: si basa su dottrine che vengono definite sacre o sante. Indipendentemente dal fatto che la approviamo o no, l’aura di sacralità ci appare così scontata che ci siamo dimenticati di come l’assunto da cui deriva dica, in sostanza: “Questa è un’idea che non si può minimamente criticare; non è permesso e basta. Perché non è permesso? Perché non lo è!”. Se qualcuno vota per un partito le cui idee non approviamo, siamo liberi di discuterne quanto ci pare; tutti quanti dibatteranno l’argomento senza che nessuno si offenda. Se qualcuno pensa che le tasse debbano aumentare o diminuire, ne parliamo tranquillamente, mentre se qualcuno afferma: «La mia religione mi vieta di girare un interruttore il sabato» diciamo: «Benissimo, rispetto la tua credenza». Lo strano è che, nel dire questo, penso: “Non ci sarà mica tra il pubblico un ebreo ortodosso che si offenderà per la mia frase?”, mentre non avrei mai pensato, parlando per esempio di politica: “Non ci sarà mica un laburista o un conservatore o un rappresentante di questa o quella teoria economica che si sentirà offeso per la mia frase?”. Avrei pensato semplicemente: “È perfettamente lecito avere opinioni diverse”. Invece, nel momento in cui qualcuno fa una minima osservazione riguardo alle credenze – qui rischio forte definendole irrazionali – di qualcun altro, ecco che tutti diventano terribilmente protettivi e, lancia in resta, si precipitano a dire: «No, quella credenza non si può criticare; è irrazionale, però la rispettiamo».
Considerando il fenomeno in termini evoluzionistici, vengono in mente gli animali che sviluppano, come le tartarughe, un durissimo carapace: è un’ottima strategia di sopravvivenza, perché niente può penetrare lo scudo. Oppure viene in mente un pesce velenoso cui niente e nessuno si avvicina e che prospera tenendo lontano ogni possibile concorrente. Nel caso della civiltà umana, perché diciamo: «Quest’idea è protetta dalla santità o sacralità»? Perché è perfettamente lecito sostenere il partito laburista o il partito conservatore, i repubblicani o i democratici, una scuola di economia piuttosto che un’altra, Macintosh piuttosto che Windows, ma non è lecito avere Un’opinione sull’origine dell’universo e sul suo eventuale creatore, in quanto l’argomento è considerato “sacro”? Che senso ha un simile atteggiamento? Perché riteniamo certe cose intoccabili? Per un unico motivo: l’abitudine. Non c’è altra ragione. Semplicemente, si è instaurato un ciclo che, una volta avviatosi, si è rivelato potentissimo. E ci siamo abituati a non mettere mai in discussione le dottrine religiose. Infatti, è molto interessante vedere quanto furore suscita Richard quando le mette in discussione! Tutti diventano isterici, perché non è permesso dire certe cose. Eppure, se si riflette razionalmente, si capisce che non c’è motivo di non sottoporre le idee religiose alla stessa disamina cui sono sottoposte tutte le altre: l’unico motivo è che abbiamo in qualche modo convenuto di non farlo.
C’è un libro molto interessante che forse qualcuno dei presenti ha letto e che si intitola Man on Earth. Lo ha scritto John Reader, un antropologo che insegnava a Cambridge, e descrive il modo in cui… No, permettetemi di fare un passo indietro e di parlarvi dell’intero saggio, dove si analizzano diverse civiltà che, essendosi sviluppate in località abbastanza isolate, come isole, valli montane o altri luoghi poco accessibili, rappresentano esempi “da laboratorio” in cui è possibile vagliare con precisione l’influenza dell’ambiente e delle circostanze sull’evoluzione della cultura. I casi presi in esame sono numerosi e affascinanti. In particolare, mi vengono in mente la civiltà e l’economia di Bali, una piccola isola molto popolosa che vive di riso. Bene, il riso è un alimento dal rendimento straordinario, perché se ne può coltivare una gran quantità in uno spazio relativamente ristretto; tuttavia, perché la coltivazione vada a buon fine, occorrono molta manodopera e molta, assidua cooperazione tra le persone, specie in una piccola isola fittamente popolata che dipende dal raccolto per il suo sostentamento. La società di Bali è capillarmente permeata di religiosità e al suo interno ogni persona ha un’identità, un ruolo e uno status sociale ben definiti. L’intera esistenza fa capo alla religione: vi sono calendari basati sulle credenze religiose e costumi e rituali derivanti da norme religiose; e seguendo tutte le varie prescrizioni i balinesi sono sempre stati molto produttivi nella coltivazione del riso. Negli anni Settanta arrivarono delle persone che, notando che si coltivava e raccoglieva il riso in base al calendario del tempio e giudicando la prassi insensata, dissero: «Bando a queste sciocchezze. Noi vi aiuteremo ad aumentare in misura notevole la produzione, che è già ottima. Basta che usiate gli antiparassitari, vi basiate sul nostro calendario, facciate questo e quell’altro». Gli abitanti di Bali seguirono il consiglio e per due o tre anni la produzione di riso crebbe moltissimo, ma l’intero equilibrio predatore/preda/parassita saltò e presto il raccolto diminuì sensibilmente. Allora i balinesi dissero: «Fanculo, torniamo al calendario del tempio!», ripristinarono le vecchie usanze e tutto riprese a funzionare benissimo. Certo, noi potremmo dire che basare la coltivazione del riso su una cosa assurda e irrazionale come la religione è stupido e che bisognerebbe utilizzare criteri più razionali, ma loro potrebbero benissimo ribattere: «Visto che la vostra civiltà e la vostra società si basano sul denaro, che è una finzione, perché non la piantate con questa finzione e non vi mettete a collaborare gli uni con gli altri?». E noi sappiamo che non funzionerebbe…
Dunque, in un certo senso, costruiamo metasistemi che ci trascendono per riempire il vuoto creatosi quando abbiamo smesso di credere in un ente che (per quanto non reale) si supponeva essere il progettista, l’architetto, il creatore; e lo facciamo perché quando noi – non intendo necessariamente noi in questa stanza, ma noi come specie – progettiamo e creiamo un creatore, ci comportiamo poi come se ve ne fosse davvero uno e allora accadono varie cose che altrimenti non accadrebbero.
Douglas Adams
Proverò a illustrare meglio il concetto. Premetto che la mia è pura speculazione teorica, un mero azzardare ipotesi, perché non conosco bene l’argomento e conviene forse considerare il discorso che sto per fare più un esperimento ideale che una vera disamina. Vorrei accennare al feng shui, di cui so molto poco, ma del cui ruolo in progettazione, costruzione, disposizione e arredamento delle case si è parlato parecchio negli ultimi tempi. Il feng shui ci invita a immaginare che la nostra casa sia abitata da un drago e a guardarla chiedendoci in che modo esso si muoverebbe al suo interno. Se un drago non fosse felice in questa casa, dovremmo mettere un vaso di pesci rossi lì e una finestra là. Sembra una completa, colossale fesseria, perché tutto quanto concerne i draghi non può che essere una fesseria; visto che i draghi non esistono, qualunque teoria si basi sul loro comportamento dev’essere stupida. Che cosa pensano queste stupide persone, che i draghi possano dirci come costruire una casa? Eppure credo che, se lasciassimo per un attimo da parte le interpretazioni letterali, troveremmo nel ragionamento qualcosa di interessante. Voglio dire, tutti noi, avendo vissuto e lavorato in certi edifici e frequentato o visitato altri edifici, sappiamo che è più piacevole, confortante, gradevole vivere in alcuni che in altri. Non siamo riusciti a quantificare questa sensazione, ma nel corso del Novecento diversi architetti hanno proclamato di sapere come rendere i palazzi confortevoli, sicché è nata l’orribile idea della casa come “macchina per abitare”, e Mies van der Rohe e altri hanno innalzato ceppi di vetro e costruito aggeggi dalla forma strana che erano espressione di una qualche teoria. Saranno anche case e palazzi tecnicamente ben progettati, ma non sono posti in cui sia bello vivere. Sono state avanzate infinite teorie sull’argomento, ma se ci si siede a lavorare con un architetto (e io ho vissuto questa ordalia, come senza dubbio l’hanno vissuta tanti altri), si scopre che, per organizzare nella maniera migliore una stanza, bisogna tenere conto dell’illuminazione, degli angoli, delle abitudini e delle esigenze delle persone che dovranno viverci e di tanti altri fattori che non conosciamo e che quindi vengono trascurati. Non sappiamo che importanza assegnare all’uno e all’altro elemento e, mentre cerchiamo timidamente di capire come funziona la faccenda, siamo in difficoltà, in quanto più che indizi concreti abbiamo a disposizione teorie o tecniche ingegneristiche e architettoniche tra le quali facciamo fatica a districarci. Confrontiamo questa situazione con quella in cui ci troveremmo se qualcuno ci tirasse una palla da cricket. Potremmo starcene seduti a guardare, dire: «Forma un angolo di proiezione di diciassette gradi», fare calcoli sulla carta e, una settimana dopo che la palla ci fosse passata accanto, elaborare il grafico della traiettoria e del punto in cui andare a prenderla. Oppure potremmo allungare la mano e afferrarla, perché, subito sotto il livello conscio, abbiamo molte facoltà che ci permettono di integrare in tanti modi complessi tanti fenomeni complessi e di dire, alla fine di tali complesse ma veloci integrazioni: «Oh, guarda, c’è una palla che arriva: la prendo!».
In sostanza, la mia ipotesi è che il feng shui e infinite altre cose rientrino nel novero delle operazioni che si eseguono al di sotto del livello conscio. Sappiamo fare innumerevoli cose senza necessariamente calcolare in che modo farle: le facciamo e basta. Torniamo al problema della progettazione di una stanza o una casa. E, invece di perder tempo a calcolare gli angoli e a cercare di capire quali validi principi estrapolare da una teoria architettonica che magari è solo una moda passeggera, proviamo a chiederci: «Come ci vivrebbe qui un drago?». Siamo abituati a immedesimarci nelle creature organiche; le creature organiche consistono di infinite variabili diverse che non potremo mai capire, però, in pratica, sappiamo come vivono. Non abbiamo mai visto un drago, ma tutti abbiamo presente il suo aspetto, per cui siamo in grado di dire: «Se un drago passasse di qui, rimarrebbe incastrato in questo punto e si incazzerebbe in quest’altro punto, perché non vedrebbe il tale oggetto e con un colpo di coda rovescerebbe il vaso». Immaginando una disposizione dell’ambiente in cui il drago si sentisse felice, immagineremmo automaticamente un posto in cui vivrebbero bene anche altre creature organiche, noi compresi.
Voglio dire insomma che, più a fondo conosciamo la scienza, più dovremmo ricordarci che le finzioni con cui in precedenza popolavamo il nostro mondo avevano uno scopo di cui è opportuno sia comprendere la natura sia conservare le componenti essenziali, se si vuole evitare di buttare via il bambino con l’acqua sporca; perché, anche se non consideriamo più serio il motivo per cui quelle finzioni furono create, esse – come altre analoghe – probabilmente esistono per una valida funzione pratica. Ho idea che, quando progrediremo nello studio della vita artificiale e digitale, vedremo emergere dal mondo digitale sempre più proprietà impreviste e scopriremo che queste proprietà hanno una netta somiglianza con le entità che ci siamo creati intorno per dare forma e significato alla vita e per vivere e lavorare gli uni con gli altri. Tendo quindi a pensare che non vi sia un Dio reale, ma un Dio artificiale la cui importanza non andrebbe sottovalutata.
Ecco, era questo il concetto a cui volevo arrivare e adesso siete liberi di tirarmi le sedie!