Esordio psicotico e intervento precoce

Creato il 04 gennaio 2013 da Raffaelebarone

Indicatori psicopatologici e psicoterapia di comunità

 Simone Bruschetta, Raffaele Barone, Amelia Frasca

1. Verso un intervento clinico-sociale preventivo e precoce 

La vera frontiera della ricerca clinica sulla grave patologia mentale è oggi rappresentata dall’elaborazione di nuove strategie di intervento atte a prevenire l’attivazione di quel particolare processo bio-psico-sociale detto “esordio o primo scompenso psicotico”, attraverso la presa in carico dell’ambiente di vita, il sostegno psicologico al paziente e alla sua famiglia, nonché il corretto utilizzo della farmacoterapia[1].

Più precisamente, nonostante l’esordio di un disturbo psicotico avvenga generalmente nella tarda adolescenza o nella prima età adulta, esiste anche un funzionamento pro-dromico (o pre-psicotico)  che si manifesta sin dall’età scolare con anomalie neuropsicologiche dello sviluppo cognitivo, motorio e linguistico e con disordini nelle relazioni familiari e sociali.

Vi sono cioè delle caratteristiche cliniche sottosoglia che possono evolversi, in un arco di tempo di alcuni anni e difficile da circoscrivere, in sintomi francamente psicotici; oppure rivelarsi “falsi positivi” (le persone coinvolte non svilupperanno in seguito alcun disturbo psicotico).

Siffatte evidenze sollevano pertanto le seguenti riflessioni.

Da un lato,  i programmi di intervento precoce e preventivo della psicosi[2] che si stanno sviluppando si basano sull’ipotesi che eventuali ritardi nell’applicazione di interventi efficaci diminuiscano la possibilità che la malattia vada incontro a completa remissione; e/o rallentino il processo di guarigione. Tutte le strategie volte a contenere e ridurre i suddetti ritardi veicolerebbero benefici potenziali quali:

-   riduzione della morbilità;

-   guarigione più rapida;

-   prognosi migliore;

-   mantenimento di abilità psicosociali;

-   conservazione di supporti familiari e sociali;

-   minore necessità di ospedalizzazione.

Dall’altro, bisogna tener in conto il pericolo che sia i soggetti che effettivamente si trovano in una condizione pre-psicotica, sia i “falsi positivi” incorrano in un processo di stigmatizzazione a connotazione fortemente psichiatrica.

Dal nostro punto di vista, i programmi di intervento precoce e preventivo hanno come best practice i trattamenti psicosociali in contesti non sanitari (domestici e comunitari), integrati all’occorrenza alle terapie farmacologiche antipsicotiche. I farmaci dovrebbero essere proposti e somministrati soltanto a quei giovani che soddisfano i criteri di un rischio molto elevato di esordio psicotico (sui quali torneremo nei paragrafi successivi). Mentre occorrerebbe implementare appunto i trattamenti psicosociali capaci di potenziare lo sviluppo psichico e sociale, sostenere le famiglie, evitare dove possibile l’interruzione degli studi o delle attività lavorative e soprattutto prevenire eventuali condotte violente, abuso di sostanze e tentativi di suicidio di tutte quelle persone che a prescindere dall’evoluzione delle suddette caratteristiche sottosoglia stanno passando attraverso una fase evolutiva delicatissima e ad alto rischio psicopatologico.

1.1 Il concetto di stato mentale a rischio psicosi

Per “stato mentale a rischio”  (ARMS) (Yung et al. 2003; Yung e McGorry 1996) intendiamo quell’insieme di sintomi che aumentano la vulnerabilità generica alla psicosi (ai quali non necessariamente segue la psicosi) e che si esprimono sotto forma di:

-   deterioramento nelle prestazioni scolastiche e/o lavorative, ritiro sociale, mancanza di interesse verso la socializzazione, perdita di energia e motivazione (cambiamenti nelle funzioni sociali);

-   disturbi del sonno o appetito alterato (cambiamenti comportamentali);

-   depressione, ansia, irritabilità, rabbia, oscillazioni dell’umore, percezione che le cose siano cambiate o credere che i pensieri siano accelerati o rallentati (cambiamenti emozionali);

-   difficoltà di memoria o di concentrazione, sospettosità e presenza di credenze inusuali (cambiamenti cognitivi).

Aggiungiamo che in età adolescenziale episodi di abuso di sostanze, di tentato suicidio o di aggressività verso i familiari possono anche essere considerati sintomi tecnicamente pre-psicotici (Ueland, Rund, et al, 2004; Ueland, Oie, et al., 2004b).

Sembra utile sottolineare inoltre che il programma australiano Personal Assessment and Crisis Evaluation (P.A.C.E) (Yung et al. 1995, 1996 ; McGorry et al. 2001) ha individuato uno stato di rischio imminente di esordio psicotico in età adolescenziale definito dalla presenza di uno o più dei seguenti criteri:

-   storia familiare di malattia psicotica o disturbo schizotipico di personalità secondo il DSM-IV e un recente cambiamento dello stato mentale[3];

-   sintomi psicotici sotto soglia (per esempio, insolite esperienze percettive) che si presentano più volte a settimana per almeno una settimana nell’ultimo mese e per non più di 5 anni;

-   brevi, limitati o intermittenti sintomi psicotici con una durata inferiore a un settimana e con remissione spontanea[4].

Segnaliamo infine che all’interno del suddetto programma, è stato condotto pure uno studio pilota sui processi di transizione dalla fase pre-psicotica alla psicosi. Tale studio ha individuato un tasso di transizione del  40%  a psicosi franca, ad un anno dal reclutamento dei soggetti sperimentali (McGorry, et. al., 2003). Questo livello di rischio è enormemente più alto rispetto a quello della popolazione generale, nella quale l’incidenza di psicosi si aggira attorno all’1% (OMS, 2001; 2005).

1.2 Le fasi evolutive più a rischio psicosi

Lo studio della patogenesi dei disturbi psicotici attraverso il modello epigenetico-evolutivo (Andreasen, 1999; McGorry, Jackson, 1999; Grotstein, 2003) che ha perfezionato la classica teoria dell’interazione fra predisposizione e stress (diathesis-stress theory), identifica una molteplicità di fattori di rischio e sottolinea che sono solo due le principali fasi evolutive a rischio di manifestazione della patologia:

-   uno molto precoce in cui si manifesta una vulnerabilità genetica, legato a fattori di rischio perinatali;

-   uno più tardivo in adolescenti e giovani adulti legato a fattori di stress ambientali o ad abuso di sostanze.

Un ormai sufficiente numero di evidenze, raccolte all’interno del programma di ricerca sopracitato, dimostra infatti che:

-   alcune disfunzioni neuropsicologiche[5] precoci possono rappresentare il core deficit di molti dei disturbi psicotici (Hoff, Kremen, 2002);

-   il bambino con tali alterazioni è portato alla organizzazione patologica delle strutture intrapsichiche del Sé nel corso della sua crescita (Grotstein, 2003);

-   i fattori di rischio tardivi come l’assenza dei tipici fattori protettivi rappresentati da un ambiente socio-familiare sufficientemente funzionale, possono far precipitare tale costruzione patologica in una forma psicotica sintomatica a partire dall’età adolescenziale (Grispini, 2003).

1.3 Ulteriori indicatori psicopatologici della vulnerabilità schizotropica.

Gli studi sinora citati sostengono la validità degli interventi preventivi e precoci delle psicosi e sulla base di tale validità sono stata utilizzati come substrato empirico per la riorganizzazione dei servizi di salute mentale nei paesi anglosassoni.

Inevitabilmente tali studi ci hanno riportato alla memoria il paradigma epigenetico dei sintomi-base sviluppato in Germania già dagli anni sessanta da Huber e collaboratori (Huber 1966, 1983, 1985; Gross 1969; Süllwold 1977).

I sintomi-base, descritti dagli studi della Scuola di Bonn sul decorso delle sindromi schizofreniche, corrispondono a delle esperienze soggettive disturbanti che si configurano come:

-   perdita di controllo;

-   disturbi percettivi semplici;

-   disturbi percettivi complessi;

-   disturbi del linguaggio recettivo ed espressivo;

-   disturbi del pensiero; disturbi della memoria;

-   disturbi della motricità;

-   perdita degli automatismi;

-   anedonia e ansia;

-   sovrabbondanza di stimoli[6].

La scuola di Bonn ha avuto il merito sia di delineare in maniera pionieristica la condizione soggettiva di estraniazione da Sé, dal corpo e dagli Altri che si presenta alla coscienza di alcuni pazienti in fase pre-clinica; sia di sfatare il pregiudizio sulla cattiva prognosi delle sindromi schizofreniche e sulla omogeneità dei loro decorsi.

Recuperare il metodo fenomenologico[7], ovvero lo studio dei modi in cui le esperienze si danno alla coscienza, ci appare come una preziosa opportunità per tenere sempre a mente la soggettività dell’esperienza dei pazienti anche quando, come nel caso dei deliri e delle allucinazioni, sembrano inaccessibili, inquietano e disorientano[8].

2. La valutazione dello stato mentale a rischio

Nonostante i manuali diagnostico-statistici per i Disturbi mentali, formulati e condivisi dalla comunità scientifica mondiale, non propongano ancora un’entità nosografica corrispondente alle Sindromi Prodromiche, la possibilità di individuare precocemente complessi sindromici o stati mentali a rischio (at risk mental states), costituiti da segni e sintomi passibili di evolversi in un disturbo psicotico, è oggetto d’interesse di molti Centri internazionali sullo studio e il trattamento delle psicosi come  PRIME[9] Clinic (Yale, Stati Uniti), la PACE[10] Clinic (Melbourne, Australia), OASIS[11] (Londra, Gran Bretagna), la FETZ[12](Colonia, Germania), ecc..

3.  Verso una neuro-psico-patologia della psicosi

Le anomalie neuropsicologiche pre-psicotiche sin qui descritte possono oggi essere interpretate ed indagate in correlazione all’ipotesi eziologica della doppia tipologia sintomatologica (positiva e negativa) prevista dal modello delle “due vie d’azione” elaborato da Frith (1992).

Secondo tale modello, la sintomatologia positiva sarebbe causata da un deficit ai meccanismi di controllo degli impulsi e di inibizione dell’azione automatica stimolo-dipendente; mentre quella negativa da un deficit alla via d’azione volontaria, attraverso la quale si realizzano scopi/progetti intenzionali.

Entrambe le tipologie sintomatiche convergerebbero infine in un deficit neuropsicologico, presente in tutti i pazienti psicotici, a carico dei processi di “metarappresentazione”[13] e delle cosiddette competenze mentalistiche[14] (Corcoran, Mercer, Frith, 1995).

Blair e Cipollotti (2000) hanno elaborato un “modello quadrifattoriale”[15] che presuppone lo sviluppo di due tipologie di abilità (una detta di mentalizzazione ed una di socializzazione) che consentono all’essere umano di comprendere correttamente il mondo circostante e di pianificare utilmente un comportamento adattivo.

Abilità di mentalizzazione, intesa come capacità di:

-   formulare una Teoria della Mente che riguardi l’Altro;

-   interpretare il comportamento delle persone, ricavando informazioni dalle loro reazioni ai propri comportamenti.

Abilità di socializzazione, intesa invece come capacità di:

-   giudicare la correttezza del comportamento altrui mediante una valutazione che tenga conto del contesto sociale in cui avvengono i fatti;

-   conoscere ed aderire alle regole sociali di tipo morale e convenzionale, cioè legate alla propria coscienza o alla presenza di regole di convivenza civile.

Le alterazione delle capacità di mentalizzazione sono infatti dei markers specifici e prodromici di un quadro sintomatologico pre-psicotico (Frith, 1992; Corcoran, Frith, 2003), che potrebbe evolvere gradualmente in:

-   disturbi dell’azione intenzionale (incapacità di intraprendere spontaneamente azioni intenzionali, se non in presenza di stimoli ambientali specifici o in contesti di vita ristretti);

-   disturbi delle capacità di autocontrollo (incapacità di riconoscere una propria volontarietà durante il compimento di azioni impulsive o durante la produzione di idee ossessive);

-   disturbi nel riconoscimento delle intenzioni altrui (incapacità nella corretta eteroattribuzione di stati mentali come credenze, intenzioni, desideri)

Le disfunzioni metarappresentazionali sembrano manifestarsi in tutta la loro evidenza nel corso dei primi episodi psicotici, nei quali vengono a convergere la sintomatologia negativa del blocco delle azioni spontanee con quella positiva del delirio e dell’allucinazione (Corcoran et al., 1995; Frith, Corcoran, 1996).

4 Fase d’esordio e psicosi non trattata versus trattamento psicoterapico integrato di comunità

Mentre la fase prodromica (dal greco pro, che precede, e dromos, via-corso-decorso), è caratterizzata da sintomi sfumati e poco definiti, l’esordio psicotico vero e proprio presenta i più classici disturbi dell’espressione del linguaggio, i deliri (spesso di tipo religioso, paranoico, somatoforme, bizzarro o di autoriferimento) oppure ancora le tipiche allucinazioni, sia visive che uditive e propriocettive.

In seguito al primo episodio psicotico, soprattutto se esso corrisponde alla prima occasione in cui il paziente afferisce all’attenzione dei clinici e dei servizi per la salute mentale, è estremamente opportuno avviare in tempi brevi quell’alleanza terapeutica tra curanti e soggetti sofferenti che consentirà di affrontare, con un progetto terapeutico concordato e partecipato che include e va oltre il contenimento farmacologico della sintomatologia positiva, il periodo critico che segue sempre il primo episodio psicotico.

Siffatto periodo critico viene stimato in alcuni anni (da 2 a 5 a seconda degli studi presi in considerazione) (Birchwood, Macmillan, 1993; Birchwood, 1999, 2000)  ed è quello in cui possono presentarsi nuovi episodi di scompenso.

Il funzionamento sociale e cognitivo del paziente, così come le sue risorse personali e familiari possono andare incontro ad una severa compromissione che è fondamentale provare a scongiurare mediante strategie psicosociali (con obiettivi come la formazione professionale, l’inserimento lavorativo e scolastico, la cura attraverso dispositivi domiciliari, interventi psicoterapici individuali, familiari e di gruppo) di “contenimento del danno” e di avvio di processi di guarigione possibile che noi definiamo trattamento psicoterapico integrato di comunità.

Sinora abbiamo dato spazio e quegli studi (McGorry, Killackey, 2002; Norman, Malla 2001) che evidenziano gli effetti estremamente deleteri dei ritardi all’accesso al trattamento e per i quali maggiore è la durata della psicosi non trattata – Duration of Untreated Psychosis (DUP), che va dall’esordio conclamato alla presa in carico, peggiori saranno l’andamento clinico e l’esito della malattia.

Tuttavia, sottolineiamo e riportiamo anche il parere di clinici e ricercatori che sono di tutt’altro avviso. In particolare, Warner (2005) contesta aspramente i principi e i dati empirici sui quali si fondano gli interventi molto precoci sulla psicosi, segnalando che per molti pazienti l’esito di un esordio psicotico può essere positivo anche senza l’intervento farmacologico, mentre, al contrario, rischiano, senza alcuna necessità, di essere inseriti in percorsi psichiatrici.

A nostro avviso i clinici e i familiari dei pazienti devono assumersi il rischio di ciò che scelgono di proporre o di non proporre al paziente che si trova in una fase clinica pre-psicotica. Siamo consapevoli che ogni percorso è gravido di conseguenze, sia terapeutiche che iatrogene, e che è l’alleanza e la con-divisione della responsabilità tra clinici, familiari e pazienti a determinare la bontà e l’efficacia delle scelte intraprese.

5   La funzione psicopatologica del delirio e delle allucinazioni

I fenomeni dispercettivi rappresentano un’importantissima “chiave d’accesso” alla profondità e complessità della soggettualità, oltre che, naturalmente, della sintomatologia del paziente. Possono infatti essere considerati gli unici elementi di “soggettività obiettivabile” presenti nella pratica clinica della grave patologia mentale.

Le dispercezioni, le allucinazioni, le “voci” hanno una funzione sia protettiva che adattiva, fornendo al paziente alternative soggettive, più confortanti e soddisfacenti, a quelle rappresentazioni psichiche di Sé e del pensiero dell’Altro, che si sviluppano a partire da contesti ed esperienze relazionali familiari e sociali dolorose.

Sassolas (1997) ad esempio attribuisce al delirio due funzioni, di anti-sprofondamento e repulsiva, proprie dell’economia psichica dei pazienti con psicosi.

Molto spesso questo li protegge contro un’angoscia che non possono né mentalizzare né provare, perchè la sua intensità li condurrebbe ad un vero stato di annientamento. Questa sofferenza appare in filigrana nei momenti di tregua dello loro attività delirante, che rappresentano i pericolosi momenti di rischio di suicidio. Questa vera e propria angoscia di annientamento è legata a una perdita d’oggetto narcisistico; rinvia a un lutto mai elaborato di un’unione perduta o impossibile con un oggetto narcisistico onnipotente. Il cataclisma contro il quale li protegge l’attività delirante è quello di uno sprofondamento completo dell’io nel fondo di questa frattura narcisistica. L’oggetto narcisistico è sostituito dal delirio, che al suo posto svolge il ruolo di ancoraggio al mondo, di sostegno, di legame con la realtà psichica. L’esistenza di questa vulnerabilità narcisistica e della prossimità di questa angoscia di annientamento che il delirio tiene bene o male a distanza spiegano perché questi pazienti non si fidano delle emozioni che una vera relazione con l’altro potrebbe scatenare in loro. Il delirio fa da argine nei confronti di tale relazione, sia con una sorta di funzione repulsiva che tiene l’altro a distanza, sia con il mantenimento di una situazione nella quale non è più con il paziente che noi entriamo in relazione ma con il suo delirio, dietro il quale si rifugiano il suo io, la sua identità, le sue emozioni. Il suo delirio lo rappresenta, diviene il suo emblema, il suo stendardo, per riprendere un’espressione di Racamier (Sassolas, 1997). 2001, pp. 340-341).

Quindi, in quanto appartenente, come già detto, alla sintomatologia psicotica del primo tipo, attiva una risposta sociale peculiare, soprattutto nei familiari e negli operatori che reagiscono esclusivamente ad esso, permettendo al paziente di evitare un reale incontro con l’Altro, e quindi trasformandolo in un simulacro dell’immagine di sé.

Aggiungiamo che <<il delirio si può intendere come un modo personale di entrare in sensibile risonanza con un particolare tema, ovvero un certo intricato nodo relazionale in un gruppo (sia familiare o sia istituzionale o sia di pari)…. e come una specifica modalità narrativa[16] di ricerca e di costrizione del “sé” individuale e sociale, scelta come alternativa ad altre strategie, certo meno metaforiche ma spesso ben più violente>>[17] (Fasolo, 2005)

Ma, come spesso capita, quando il paziente costruisce un’alleanza terapeutica salda con operatori e contesti clinici, in grado di reggere l’angoscia dell’esposizione ai processi mentali ed ai temi culturali da esso trasposti nella relazione, allora, il delirio tende a smorzarsi, e la sintomatologia psicotica vira verso una condizione del secondo tipo, dove compariranno paradossalmente i comportamenti legati al ritiro sociale. Come se il dispositivo terapeutico attivato, quando funziona, svolgesse quella funzione di protezione dall’incontro reale con l’Altro che normalmente viene svolta dalla sintomatologia psicotica di primo tipo.

Gli interventi precoci, in fase prodromica o in fase d’esordio, devono quindi tener sempre più da conto la funzione compensatoria della sintomatologia allucinatoria, provando, almeno inizialmente a non combatterla, o comunque a non sopprimerla a tutti i costi, ma piuttosto ad interrogarla e utilizzarla come strumento di lavoro; proprio come si fa in tutti i trattamenti psicoterapici ad indirizzo analitico (Benedetti, 1986).

L’obiettivo di lavorare sulla funzione compensatoria dell’allucinazione è divenuto anche il focus di alcune esperienze di gruppi di auto-mutuo-aiuto, indicate con l’espressione “gruppi di uditori di voci” (Coleman, 1999; altri autori del manuale).

È difficile in questa sede dare alle suddette esperienze lo spazio che meritano per il peso che hanno svolto e continuano ad esercitare nel percorso di guarigione di molti pazienti che altrimenti sarebbero entrati in labirinti psichiatrici cronicizzanti e iatrogeni. Ci limiteremo pertanto a dare alcuni spunti che il lettore potrà a suo piacere approfondire in seguito[18].

Più che essere erroneamente, pericolosamente e drammaticamente etichettati sin dalla prima comparsa delle voci come schizofrenici, gli uditori di voci devono essere aiutati a cogliere il rapporto esistente tra queste ultime, i fatti accaduti nella loro vita e i sentimenti distorti che da tali fatti sono scaturiti. Infatti, nel 70% dei casi clinici presi in esame le voci percepite dai pazienti si riferiscono a traumi o altre situazioni che li hanno fatti sentire impotenti rispetto a quanto stava verificandosi o era loro accaduto (Romme, Escher, 1989, 1996, 2000, 2008;  Escher, 2005; Ensink, 1992). Tra gli eventi traumatici riscontrati elenchiamo come più frequenti e significativi l’aver subito abusi sessuali e/o abusi fisici, l’aver negato le proprie emozioni, l’essere stati oggetto di gravi atti di bullismo ed esposti a livelli elevati di stress nonché a situazioni che hanno generato profondo senso di insicurezza nella delicata fase dell’adolescenza.

Concludiamo segnalando che gli studi di cui sopra hanno altresì evidenziato alcuni importanti elementi da tenere in conto nelle cure da proporre ai pazienti in questione:

-   l’uso di farmaci a basso dosaggio consente ai pazienti di ridurre la loro ipersensibilità emotiva e di supportare con livelli di angoscia più sostenibili il processo di ripresa, viceversa l’assunzione di dosaggi elevati ostacola le potenzialità di guarigione;

-   accettare che le voci sono reali, dialogare con esse e dare loro un senso sulla base della storia di vita dell’uditore rappresenta la chiave di volta del trattamento orientato alla guarigione in cui la persona sperimenta forza e potere rispetto al proprio destino;

-   l’età, l’identità, il contenuto, le caratteristiche, le emozioni che le voci sono capaci di scatenare (dalla paura al senso di protezione), nonché il momento in cui si sono presentate per la prima volta o le circostanze nelle quali continuano ad affiorare, possono dare informazioni preziose circa la ricostruzione degli eventi dolorosi che le hanno generate.

6 Il linguaggio psicotico

I pazienti che soffrono di una patologia mentale di tipo psicotico non sembrano in grado di accedere facilmente al livello dei significati epistemici e pragmatici tipici della modalità di comunicazione di tipo linguistico-simbolica (Racamier, 1980; Sassolas, 1997), ma comunicano attraverso modalità pragmatico-corporee[19].

A proposito di questa caratteristica del funzionamento psicotico, riportiamo sinteticamente due letture che di certo si presentano come diametralmente opposte, ma che forse ci permettono di cogliere la complessità del fenomeno stesso.

La prima è quella proposta da Grivois e coll. (200) secondo i quali le interazioni non-verbali e inconsce, fatte di gesti ed emozioni, si basano sull’imitazione. Gli esseri umani <<da buoni attori della reciprocità, vivono in immersione mimetica>> e in tal modo <<economizzano una fantastica riserva di attenzione>> che resta disponibile per altri compiti sociali ed interattivi, primo tra tutti il linguaggio. Da un momento all’altro tuttavia gli accomodamenti senso-motori reciproci si spezzano e “nasce” la psicosi. Il soggetto è investito dal <<deragliamento del meccanismo di coordinazione senso- motoria>> , la reciprocità motoria cessa di essere inconscia ed il pensiero diviene concreto.

Venendo alla seconda interpretazione, i fenomenologi inquadrano invece la deriva semantica o cognitiva (sfaldamento dell’usuale ordine simbolico dei significati) in un più ampio modello dell’esistenza schizofrenica a quattro dimensioni[20].

Inoltre, dal loro punto di osservazione, i pazienti ascrivibili al tratto schizofrenico, non possiedono uno spazio psichico interno sufficiente ad ospitare i pensieri e le emozioni del senso comune[21]: cioè i temi culturali di una vita mentale fondata sull’intersoggettività (Stanghellini, Ballerini, 2005; Stanghellini, 2006).

Tali Autori evidenziano cioè quanto la patologia psicotica sembri portare all’estremo paradosso l’oscillazione basilare dell’essere umano tra l’ adattamento mimetico all’Altro e l’alienazione dalla relazione con l’Altro.

Oscillazione paradossale che sostengono essere una manifestazione parossistica dell’eccentricità di base dell’essere umano; ovvero del suo esistere sempre ed esclusivamente nella relazione tra Sé e l’Altro da Sé.

Su questa consapevolezza, Stanghellini (1999), individua due tipologie di vulnerabilità specificamente psicotica:

-   la prima di “iperconnessione al senso comune;

-   la seconda di “ipoconnessione al senso comune”.

Nella prima ci troviamo cioè di fronte ad un iper-adattamento alle istanze ed ai valori della collettività che schiacciano questi pazienti in una eterna dinamica di dipendenza e controdipendenza dal senso comune. Nella seconda ritrovimo un’alienante incapacità di questa tipologia di pazienti, nel sintonizzarsi con i campi mentali che li attraversano indipendentemente da quanto possano consapevolmente percepirli.

Il dramma dell’eccentricità va in scena quindi nella mai perfetta e definita coincidenza dell’essere umano né con sé stesso, né con il proprio mondo. Dramma che Stanghellini (1999) definisce soteriologico, e che costituisce il vincolo, ma anche la vera possibilità esistenziale della soggettualità umana.

7. Domiciliarità come orizzonte di cura

Ci preme  affermare che la domiciliarità può essere intesa come strumento di cura a bassa  stigmatizzazione non solo nei casi di sofferenza mentale conclamata, ma anche nel caso di tutti gli interventi a carattere preventivo (fase prodromica) e precoce (esordio psicotico e seguente periodo critico).

Essa infatti persegue in maniera efficace un compito evolutivo centrale in qualsiasi forma di psicoterapia, ovvero lo sviluppo  delle competenze mentalistiche (Corcoran, 2000). La condivisione degli atti della vita quotidiana consente di mantenere un contatto con il mondo esterno e di continuare a dargli forma e significato; di tornare ad incidere su di esso, laddove si sono collassati quei meccanismi senso-motori capaci di trasformare l’intenzione in azione; e di fare l’esperienza mentale della rappresentazione dell’Altro da Sé collegato a Sé e di un Altro da Sé, esistente cioè indipendentemente dalla propria onnipotenza solipsistica ma comunque in relazione al proprio mondo emozionale.

Pertanto, la domiciliarità rappresenta quell’orizzonte di cura comunitaria nel quale si realizzano la costruzione dell’alleanza tra familiari, clinici e pazienti; il lavoro sul contesto di vita del paziente terapeuticamente orientato; nonché il mantenimento e l’ampliamento continuo di un vertice di osservazione condiviso circa il progetto evolutivo attivato.


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