paciosa, imprevedibile nocchiero
di un veliero proiettato verso il mare
del duemila al grido di "Cazzo, subito".
(Elio e le storie tese)
Un paio di mesi fa abbiamo celebrato le gesta di Flavia Pennetta, prima italiana a vincere gli US Open di tennis, battendo in finale un'altra nostra compatriota, Roberta Vinci. Se da una parte l'impresa delle nostre ragazze ha meritato la ribalta sportiva, dall'altra fa riflettere un dato di fatto. Come riportato da Wired nel suo articolo Pennetta, sei una dilettante, le donne che praticano qualsivoglia sport in Italia non sono professioniste. Questo comporta che non abbiano alcuna tutela, non possano andare in maternità, non versino contributi pensionistici né abbiano diritto al TFR. Considerando che la Pennetta, così come la Pellegrini o la Vezzali spendono il 100% del loro tempo impegnate nel loro sport, difficilmente possono "arrotondare" con un altro lavoro! Nei fatti professioniste, ma ufficialmente dilettanti. Il vuoto è di natura normativa: solo alcune discipline sono considerate professionistiche e per di più solo in campo maschile.
Ancora una volta emerge che le pari opportunità in Italia sono soltanto una definizione inutile e vuota da inserire dopo la parola ministero (anch'esso vuoto). Le statistiche sono impietose: l'accesso a posizioni lavorative di rilievo è nettamente a favore degli uomini; gli stipendi delle donne sono mediamente più bassi rispetto ai pari livello dell'altro sesso; per non parlare delle innumerevoli storie di donne la cui carriera è stata interrotta dall'arrivo di un figlio. Proprio a tal proposito, avevo già espresso le mie perplessità sull'utilità di interventi spot come il bonus bebè: non può essere questa una formula per ridisegnare il trend del tasso di natalità (l'Istat, a fine 2014, ha certificato 509000 nascite, 5000 in meno rispetto al 2013, contro quasi 600000 decessi), soprattutto perché spesso le donne non fanno figli per non perdere il proprio posto di lavoro. Oggi come non mai le famiglie necessitano di avere almeno due entrate, per cui è indispensabile una politica del lavoro strutturalmente a favore delle donne, che possano così fare quanti figli vogliono. Svanirebbe così l'incubo di ciò che potrebbe capitare alla propria posizione lavorativa, diventando parte integrante di un welfare costituito da asili e scuole accessibili per tutti, laddove i nonni non possano essere un valido e fattivo sostegno. Si dovrebbero consentire ai Comuni investimenti in tal senso, magari in collaborazione con aziende o privati che potrebbero partecipare alla costruzione/ristrutturazione di scuole ottenendo degli sgravi fiscali (così come già succede con l' Art Bonus) e concedendo ai dipendenti degli sconti o agevolazioni per usufruire del servizio.
In generale c'è bisogno di costruire un sistema che aiuti le donne a vivere la maternità come un momento normale e di conseguenza ripetibile della propria vita, non come un meteorite che cade nella loro esistenza sconvolgendo e distruggendo il quieto vivere. A tal proposito, vi propongo un interessante sfogo, tratto dal blog di Giovanna Cosenza DIS.AMB.IGUANDO, dal titolo Esaltazione della maternità 2.0, ovvero: come tagliare le mamme fuori dal mondo. La maternità dovrebbe coincidere con una semplice pausa fisiologica dalla propria professione, necessaria per accudire il pargolo appena nato; non deve diventare una croce dalla quale non si riesce più a scendere. Mi piace molto il concetto espresso nell'articolo, per il quale i bambini sono un patrimonio di tutti, oltre che dei genitori, in quanto rappresentano il futuro della nostra società, i cardini dell'Italia di domani. Se lo Stato creasse un vero welfare di supporto alla famiglia e alla maternità, ci sarebbe una maggiore propensione a fare figli, con tutti i benefici che ne conseguono.
Sono sicuro che tutti voi potete raccontare situazioni di vita vissuta, dirette o indirette: vi aspetto allora nei commenti per dire la vostra.