Inauguro una nuova rubrica non edificante, ad alto tasso di acidità, una specie di FAQ sul principio di realtà. Si chiama: "La realtà in supposte - lesson 1."
1.
Il fantastico mondo di Patty non è necessariamente un gruppo autocosciente dei propri interessi, alla stregua, che so, di un proletariato immaginario. Quando non esibisce glitter, hallo kitty, occhiate di compiaciuto comune pattysmo, cover dell'iPhone a forma di orsetto con campanellini, il fantastico mondo di Patty è una realtà sociale sfuggente. Spesso dietro insospettabili ragazze si nasconde un membro del fantastico mondo di Patty, che fanno parte del club senza alcun previo tesseramento, cioè senza saperlo.Per esempio ci sono quelle che dicono di essere pazzissime. Ehi, io sono folle, sono troppo matta! Non puoi capire...nun ce sto co' la testa! sto 'fori! Poi, vai a verificare, e si tratta dell'ennesima ragazza di buona famiglia, che ama i gattini pelosi, non disdegna i glitter e passa ore davanti allo specchio per trovare l'espressione più conforme all'idea di ragazza pazzissima da esibire in giro.
Poi ci sono quelle che si definiscono brutte persone, davvero cattive e antipatiche, ma in realtà sono affabili, modeste, socievoli, anch'esse amano i gattini pelosi e ci tengono moltissimo a prendere ottimi voti. E che dire poi di quelle che il mio difetto è che sono troppo buona...detto correggendo una sbavatura dell'eye liner. Senza parlare di quest'inflazione di artisti, che dicono "la mia arte" con orgoglio, spesso confondendo il concetto di arte con quello di hobby - per cui basta possedere una macchina fotografica semiprofessionale e entusiasmarsi davanti a un'opera per credersi artisti. Potrei continuare a lungo, ma ho già raccontato dell'orrore che mi suscita questo fenomeno antroposoficoboh, per esempio qui: Amike del Quore.
2.
La versione più drammatica di questo credersi speciali pur non essendolo la troviamo negli ambienti di """cultura""" - in senso dispregiativo e con un sacco di virgolette -, dove sono davvero in tanti e tante a credersi dei geni. Si crede, che so, che un buon voto, qualche estimatore poco informato (o adulatore per propri interessi), la propria convinzione medesima, un uso moderatamente non balordo della grammatica e della sintassi, siano titoli sufficienti per guadagnarsi la credibilità di genio o simili. Si tratta di una cosa molto provinciale, un fenomeno tipico della semicultura, che potremmo definire "minchia quanto sono intellettuale". Alla fatica del concetto subentra un'estetizzazione narcisistica del concetto. Ci si accontenta volgarmente delle proprie sinapsi, e si chiama tutto ciò genialità. Lo si fa fondamentalmente perché lo permette il contesto. Se il contesto è mediocre, per essere geni basta poco: per esempio, essere mediocri in modo più scaltro.
(Off topic: mi viene in mente quell'espressione di Giuseppe Antonelli, per cui le acrobazie verbali di un Vendola "ricordano, più che i grandi pensatori del Novecento, le canzoni di Carmen Consoli").
3.Certe volte mi chiedo se la gente venga pagata per attingere a un serbatoio comune di identità e espressioni, se glielo abbia prescritto il medico, ma in effetti pare di no. Forse non si può evitare? La cosa che mi fa tenerezza è che ciascuno vorrebbe moltissimo essere una persona unica e speciale. (Me compresa, dannazione). Nella maggior parte dei casi si tratta di persone qualunque, che non riescono a rassegnarsi al fatto di essere delle persone qualunque e così si autodefiniscono in modi che il lessico del qualunque ha assurto a speciali, pur essendo qualunque. Questo ego umano, ma come si fa.Mi dispiace, ma non è così. Non siamo speciali. Siamo persone qualunque. Ebbene sì, anch'io, anche tu, più o meno tutti. Chissà, magari potremmo partire proprio da qui per essere speciali - per non essere, cioè, speciali in modo qualunque.
Ma perché invece non abbandonarsi all'anonimato, all'informe, all'indifferenziato: perché non fuggire con orrore dall'obbligo dell'individuazione? Quanto è mediocre temere il mediocre evitandolo con i suoi stessi mezzi, cioè con la mediocrità? In ultima istanza: ma quanto è meglio il silenzio?