Essere travolti dai classici

Da Marcofre

Tutti proclamano la necessità della lettura, e soprattutto di quella dei classici: i vari Tolstoj, Dostoevskij, Zola, Dickens. È infatti un ottimo esercizio di apprendimento, non solo per questa ragione.

Quando per esempio ci si avvicina a un “Casa Desolata”, o “L’idiota”, e se ne inizia la lettura, lo sconforto ci assale, ci sentiamo allegramente fatti a pezzi. Qualora ci sia da qualche parte una speranza, o meglio l’idea di scrivere, ebbene certe storie hanno il potere di annientarci.
Un po’ come l’asteroide che cancellò dalla faccia della Terra i dinosauri.

Questa reazione è una cosa buona. Perché si tratta di autori che giganteggiano.
Sì, forse il buon Dostoevskji avrebbe avuto bisogno di un editor per arrivare prima alla ciccia, ed evitare il grasso. Però dopo si pensa che se avesse avuto proprio un editor sarebbe stato ancora più gigantesco, e ringrazi l’Ottocento per non aver creato già allora questa figura.

Essere travolti e schiacciati è una preziosa lezione: di umiltà prima di tutto. So bene che un autore esordiente tutto è, tranne che umile (se lo fosse davvero non scriverebbe, ma si limiterebbe a leggere, giusto?); però deve avere ben chiaro nella testa il percorso. L’impegno che richiede.
Per questo una salubre scarica di colpi in testa che si ricevono leggendo “Guerra e Pace” o “1984”, lasciano intontiti e più disperati che mai.

Però, o una storia agisce sul lettore in quella maniera, oppure è aria fresca. Se desideriamo conficcarci nel cuore e nella testa di qualcuno, dobbiamo imparare a essere presi a cazzotti da Zola e Dickens. Dopo, se abbiamo talento, riusciremo a colpire il lettore nel modo giusto.

Leggere i classici è la migliore forma di allenamento possibile su questo pianeta. Senza fretta, si sviluppa in noi la capacità di evitare idiozie, schifezze, retorica e quel vasto assortimento di frescacce che raccogliamo sui banchi di scuola, e ci portiamo appresso per anni.
Non perché la scuola sia sbagliata: ma nella maggior parte dei casi non insegna a scrivere, a leggere davvero.

Se non si legge si scrive male, fine delle chiacchiere. È attraverso la lezione dei grandi autori che ci rimettiamo in piedi, e dopo osiamo persino muovere i primi passi.

Magari lasciamo passare due anni e torniamo a rileggere quel libro e sì, va meglio. Incassiamo i colpi in modo migliore; non finiamo al tappeto, barcolliamo solamente. Probabilmente barcolleremo sempre di fronte a certi titoli, ma non importa.

I colpi ricevuti o ci annientano, oppure ci inducono a elaborare una forma di difesa. Lo stile. Il nostro stile. Qui ci addentriamo in un territorio di difficile esplorazione perché, come ho ripetuto sin troppe volte, è una faccenda personale. Qui i consigli, le raccomandazioni lasciano il tempo che trovano. Non è che esista un segreto o una ricetta da svelare. Un giorno, più o meno, se si possiede il talento, ci si ritroverà con una pagina dove la propria voce c’è, riecheggia. Solo noi probabilmente vedremo le influenze che ci hanno aiutato a mettere a punto il nostro stile. Noi e pochi altri, e alcuni sbaglieranno persino.

Lo scrittore islandese Thor Vilhjalmsson raccontava in un’intervista come un critico ritenesse che lui fosse influenzato da Sartre, ma il suo scrittore di riferimento era in realtà William Faulkner.

Ecco perché il nostro stile, e il suo raggiungimento, è una roba “personale”, e gli altri da fuori, spesso sbagliano. È una specie di bizzarra alchimia di cui a malapena l’autore riesce a rendere conto.


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