Da due giorni il mal di testa mi tormenta, dalle fette biscottate della mattina allo svegliarsi, non improvviso ma preannunciato da un inquieto arrotolamento sui materassi, quando l’ansia della casa si fa sentire di più, in un orario ignoto fra le tre e le quattro di notte.
Forzo le mie pigrizie per scendere i tremendi gradoni che mi portano al cesso e da cui – incredibilmente – non sono mai caduta, ma che gentilmente invitavano N., il quale non riusciva a calibrare le sue gambe per la curva, a schiantarsi contro l’armadio, al termine delle nostre discussioni extraparlamentari.
Sono giorni strani che, con grande prosa, oserei definire del cazzo; e non perché io non sia felice, visto che il mio sport preferito è ormai controllare il cellulare (che abbandono sempre in bagno, nella borsa, sotto il dizionario) aspettando ricompense che non merito. E svicolo, tra Giugurta e l’analogia, tra chi ha cambiato opinione, chi ha bisogno di me quando io ho bisogno per un po’ d’essere presente a me stessa. Così i problemi di un lavoro che non sento mio (e qualcuno mi perdonerà, se già non l’ha fatto) mi allontanano ancora un po’ dal traguardo anche se stavolta non scivolo rovinosamente perché c’è chi mi tiene e ci tiene, e per cui anch’io tengo a me stessa di più. Mio fratello cerca – fuori tempo massimo – di sistemarmi con l’Ingegnere, dopo avermi sistemata come cuoca e addetta vendite per tutta la prossima settimana, di nascosto per non incorrere (di più) nelle mie ire settembrine. Ma lo lascio in pace e non solo perché fuit ante Helenam cunnus taeterrima belli causa. Sono stata – penso mentre mi metto sul tapis roulant – una palestra sentimentale, ultimamente, per tutti tranne che per me probabilmente; N. si è messo con un’altra adepta del partito, invasata al pari di lui, D. è tornato alle sue scorribande estive, come le ha definite mio fratello, e Gabri nel suo limbo sentimentale da cui mi manda rari messaggi. La palestra, quella vera, è praticamente vuota, nei tapis roulant accanto al mio due ragazzini (15? 16?) si sono messi di buona lena per scacciare – vano tentativo – i segni della sfigataggine adolescenziale; io che sono la più vecchia dell’intera sala pesi li osservo sorridendo, con i loro baffetti accennati e orgogliosi, le braccia quasi rachitiche, mentre si protendono con il busto scivolando con le gambe, perché Emanuel li ha fatti partire a 9 e non erano pronti.
Che poi io dovrei solo guardarmi, con i piedi aperti, due spalle che si inseguono praticamente; e sudo solo nell’esterno ginocchio, non credo sia un buon segno. Emanuel e il suo piercing vengono a chiedermi come sono andate le vacanze, evidentemente dopo un anno di palestra non ha capito che non amo il dialogo.
Martedì Nonna viene in città per essere operata e quindi avrò di nuovo Malli a casa; Malli, le sue tristezze, le sue inadeguatezze e le sue curiosità mal celate. La caduta ha demolito non solo il suo femore ma le poche certezze: vuole, all’alba dei sessanta, essere un’altra madre, se non un’altra donna. La preoccupo e forse sceglie il lato di me che meno dovrebbe tenerla sveglia la notte, ma vuole essere una mamma standard perciò sospiro e comprendo le sue pene. Credo sinceramente che condivida la mia felicità ma ripenso, camminando sul corso nella Brescia di ritorno, al suo rievocare quando alla mia età viveva sola, dove e con che affitto; non è riuscita ad andare fino in fondo al discorso e questa inconcludenza è un tratto caratteriale che condividiamo e che non ho smesso di detestare, pur guardandola con bonaria pietà. Sì, mamma – vorrei dirle – so chi c’era, chi hai conosciuto e, su tutto, come è andata. Ma non sono te, e gli errori sono tutti miei.
E poi la signora di Tebaldo Brusato mi ha dato ragione: dice che siamo bellissimi, mentre ci baciamo al centro della piazza. Se poi era l’estremo nord della piazza e non il centro, sarà solo un piccolo errore di prospettiva.
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