Recupero dell’Identità dei Luoghi – Genius Loci Qualsiasi progetto deve mirare al recupero della memoria storica della città, scoprendo il racconto delle sue trasformazioni e leggendo le tracce del suo sviluppo che ha portato a consolidare l’immagine della città e della sua forma nel tempo. Bisogna studiare l’ambiente, interazione di luogo ed identità. Importante è l'insieme delle caratteristiche socio - culturali, architettoniche, di linguaggio, di abitudini che caratterizzano un luogo, un ambiente, una città. Queste tracce sono conservate negli elementi caratterizzanti della città, che sono ampiamente riconosciuti per alcune, mentre per altre devono essere riscoperti e portati alla luce, affinché favoriscano l’affermarsi di un linguaggio unitario fondato sul recupero semantico dei luoghi e sulla ricomposizione dell’identità. Ma cosa si deve intende per “belle città”? La bellezza è certamente relativa e il giudizio estetico è diverso da soggetto a soggetto, questo vale per qualsiasi oggetto di giudizio e ancor più per la città, la cui immagine è in continua evoluzione, composta da una serie di opere diverse per epoca, autore, committente, e quindi per stile ed intenzioni. Importante è un approccio a livelli diversi: - a “scala architettonica” con uno studio delle singole architetture, soprattutto quelle più rilevanti, al fine di promuovere degli interventi puntuali; - a “scala urbana” per una lettura più ampia del contesto e l’individuazione degli elementi unificatori e degli aspetti caratterizzanti l’identità della città, necessari per ricucire spazi e creare un’immagine più armonica. Spesso dobbiamo, infatti, confrontarci con realtà urbane ampiamente stravolte sulle quali si deve intervenire non immaginando singole opere, poiché laddove il degrado è diffuso ciò non modifica la realtà del paesaggio, bensì partendo dalla riqualificazione e valorizzazione dell’esistente. In questo scenario la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale attraverso l’elemento unificatore dell’estetica, si configura quale stimolo innovativo per le economie locali e necessita di strategie d'area e marketing per lo sviluppo del Territorio. In effetti il recupero della “estetica” della città, oggi non risponde più soltanto ad una finalità culturale, ma altresì ad un fattore di sviluppo economico: il recupero delle aree urbane non è più inteso come spesa, ma come investimento capace di apportare redditi e di far funzionare flussi economici considerevoli. Ritornando al punto di partenza, nelle strategie di marketing applicate al territorio, l’elemento principale che garantisce la costruzione della competitività della città sta nel rapporto interagente tra due fattori: l'identità della città e la promozione di un'immagine “attraente”della città che va costruita sulla base delle risorse intrinseche del territorio. Lo studio sull’Estetica della Città è frutto di varie collaborazioni, così come è stato inteso dall’Università Mediterranea di Reggio Calabria; infatti, il corso di “Estetica della Città” è frutto di una collaborazione tra il Dipartimento di Scienze Territoriali e Ambientali dell’Università stessa, il Centro Internazionale di Studi di Estetica dell'Università di Palermo e la Cattedra di Filosofia Morale della Facoltà di Lettere di Roma 3. Questa compresenza di istituzioni diverse sul piano disciplinare, corrisponde a due finalità ben precise. La prima è quella di riportare il discorso estetico all'interno degli studi, delle ricerche e dei progetti che caratterizzano una Facoltà di Architettura o Ingegneria con indirizzo architettonico, dalla quale per lungo tempo l'estetica è rimasta fuori o ai margini. In occasione del conferimento della laurea ad Honorem al regista Rosi, rivedendo il film “Le mani sulla città”, si è ripercorsa la vicenda del sacco di Napoli perpetrato dalla collusione tra amministratori incapaci e corrotti, costruttori ignoranti e corruttori, tecnici incolti e collusi. In quelle condizioni, come non reagire ponendo in primo luogo una questione di natura etica, che ha infatti fortemente pervaso la cultura architettonica e urbanistica, facendo passare in secondo piano quello di natura estetica? Ma oggi possiamo constatare che una coscienza della città come bene comune si è certamente formata e che molti strumenti sono stati messi a punto per fronteggiare il micidiale connubio tra rendita fondiaria e speculazione edilizia. Tuttavia il tempo sembra maturo per riavviare un discorso sulla dimensione nella quale - unitamente a quella della funzionalità - la città è stata più gravemente colpita, quella della bellezza, affiancandola e coniugandola con quella etica. Questa è la sfida che a mio parere oggi dobbiamo affrontare: coniugare etica ed estetica per la città del terzo millennio. La seconda finalità è quella di non lasciare il discorso estetico sulla città esclusivamente nelle mani di architetti e urbanisti, perché credo che il loro bagaglio culturale e la loro formazione disciplinare non sia adeguata. Ricorrendo a Camillo Sitte, autore verso la fine dell’Ottocento di quel trattato di enorme successo che è “L’arte di costruire le città”, potremmo dire che andiamo in cerca di “qualche esempio di deduzioni teoriche, che serva da primo scalino per il grande edificio dell’estetica applicata”. Appoggiandosi a questo primo gradino, l’architettura e l’urbanistica possono ricercare i termini di un possibile punto d’incontro tra le due dimensioni - funzionale ed estetica - della città che possono essere coniugate dall’Autore facendo entrare come materia nella sua intuizione ed estrinsecazione estetica la destinazione per l’appunto dell’oggetto che serve a uno scopo pratico”. Questa è anche la concezione che un grande artista, scrittore, pensatore utopista, come William Morris, ha sintetizzata nell’icastico aforisma: “Non tenete nulla nelle vostre case che non sappiate esser utile o riteniate essere bello”. Progetti Fiera Milano ( da una conferenza del Prof. Marco Romano ) La Fiera di Milano si è di recente spostata in una nuova sede fuori città – progettata da Massimiliano Fuksas - e, per recuperare le risorse necessarie a costruirla, ha deciso di vendere come terreno edificabile l’immensa area che occupava all’interno della città. Invece di cederla al migliore offerente la Fiera ha chiesto che le offerte economiche fossero accompagnate da un progetto urbanistico, preannunciando che la scelta sarebbe stata condizionata in primo luogo dalla qualità del progetto presentato e solo in un secondo tempo, esclusi alcuni progetti sulla base di un giudizio soltanto tecnico, sarebbero state aperte le buste contenenti le offerte finanziarie di quelli rimasti in gara e, sulla loro base, effettuata l’aggiudicazione. Proposito della Fiera era di offrire alla città progetti di altissimo livello, dal momento che le cordate di imprenditori interessate all’operazione – cordate di respiro globale a causa della sua entità – avrebbero fatto ricorso ai nomi più famosi del panorama architettonico internazionale. Nominati undici esperti delle più varie discipline – critici di architettura, sociologi, economisti, in quanto urbanista anche lo stesso Prof. Marco Romano, e quant’altro – e raccolti i loro pareri, la direzione della Fiera ha poi effettuato l’assegnazione. Il Comune di Milano aveva stabilito le volumetrie massime e chiesto che metà dell’area fosse destinata a un giardino pubblico, senza tuttavia specificare in che cosa dovesse consistere o forse dandone per scontate le caratteristiche assunte da quattro secoli nella tradizione europea: che sia cioè di forma regolare, sia circondato da strade pubbliche che ne sottolineino l’equivalente accessibilità a tutti i cittadini della città, e sia possibilmente chiuso da una cancellata come quegli altri che già a Milano esistono. La Fiera stessa aveva poi suggerito che si tenesse in conto la giacitura delle strade esistenti e la morfologia della città. Milano è il frutto di una sapiente pianificazione del tardo Ottocento (il piano Beruto) e del primo Novecento (il piano Pavia Masera) il cui criterio fondamentale era stato quello di disegnare una serie di tre boulevard concentrici. Questo schema a cerchi concentrici era stato poi arricchito da alcune passeggiate radiali. Sequenza poi completata dai viali alberati che fuori le mura collegavano Milano alle altre città e che con la successiva espansione ottocentesca erano stati inglobati e convenientemente allargati al suo interno, diventando in definitiva un reticolo di strade a vario titolo tematizzate, evitando alle parti più lontane dal centro di soffrire di quell’emarginazione simbolica alla quale soccombono i nuovi quartieri progettati dopo il 1950, dei quali nessuna strada tematizzata testimonia con la sua visibile grandiosità l’appartenenza alla città e neppure lega al centro cittadino con le efficaci sequenze di un tempo, e che per questo potrebbero appartenere a qualsiasi altra città, luoghi per principio di una irrimediabile emarginazione simbolica.
Il secondo progetto, firmato da Michel Desvigne, Jean-Pierre Buffi, Pierlugi Nicolin, Italo Rota, Antonio Citterio, Anna Giorgi, Ermanno Ranzani, è dominato da una successione di laghetti che dovrebbero formare un giardino che, seppure non propriamente definibile come un giardino pubblico con le sue caratteristiche consolidate, è comunque in se concluso e affacciato su due spazi pubblici - ancorché troppo poco distinto dalla sfera privata delle case - e soprattutto riprende a suo modo la giacitura dei boulevard occidentali; la visuale di Santa Maria delle Grazie è tuttavia interrotta senza che ne sia chiaro il motivo così come è ignorata la diagonale tra le stazioni; un gruppo di grattacieli verso nord ovest appare in contrasto con il principio che debba venire previsto un solo grattacielo; il modello degli isolati tradizionali è percepito infine come un suggerimento dal quale poi ci si allontana, disponendo le case con un modulo quadrato che tuttavia – in apparenza per non apparire troppo antiquato - non osa ricostituire una strada.
Il terzo progetto è firmato da Norman Foster, Frank O.Gehry, Rafael Moneo, Cino Zucchi, Richard Burdett e URB.A.M: qui la visuale di Santa Maria delle Grazie è salvaguardata – sia pure senza esaltarla, quasi a vergognarsene – mentre il boulevard occidentale è senza motivo interrotto da un grattacielo; il giardino pubblico è ovviamente accessibile ma, all’interno degli edifici residenziali, è più che altro un giardino condominiale e non un vero e proprio giardino pubblico con le caratteristiche che lo rendono tale; ai piedi degli edifici un lungo nastro di negozi simula una strada principale che tuttavia non ha riscontro nell’esperienza europea – dove le strade principali hanno sempre due fronti di botteghe – se non nelle stazioni balneari: e difatti le prospettive evocano candidamente l’acqua di un laghetto sul quale si specchia un paesaggio estivo piuttosto che l’ambiente urbano di Milano o di un’altra città europea; un largo e informe spiazzo assume poi il nome di plaza, con il quale gli architetti americani hanno in tutto il mondo nobilitato questo genere di piazzali ai piedi dei loro grattacieli ma che non hanno nulla a che vedere con una vera piazza europea, che è invece uno spazio chiuso dalle case; il filo degli isolati sulle strade esistenti è stato qui rispettato anche se poi i varchi tra le fronti hanno un aspetto sinuoso che dona all’insieme delle case la strana e inusitata figura di un gigantesco polipo; i grattacieli a loro volta sono troppi, quasi come se ciascuno dei progettisti di maggior prestigio avesse partecipato alla cordata per progettarne uno.
Il quarto progetto è firmato da Zaha Hadid, Arata Isozaki, Daniel Libeskind e Pierpaolo Maggiora: qui, di nuovo, non ci si è presi alcuna cura della visuale di Santa Maria delle Grazie, interrotta senza alcun plausibile motivo; neppure qui si è tenuto in conto la giacitura tradizionale degli isolati milanesi; neppure qui esiste una piazza, seppure questo nome venga attribuito allo sterminato piazzale a sud del cerchio del museo; neppure qui si è tenuto conto del boulevard occidentale; neppure qui il verde costituisce un vero giardino pubblico ma è soltanto il giardino condominiale tra le case.
I grattacieli del progetto milanese e quelli di Shangai Soltanto Renzo Piano ha interpretato bene il tema presentando un progetto nel quale il giardino pubblico occupa la metà dell’area, è contornato da strade, ed è recintabile; la visuale di Santa Maria delle Grazie è salvaguardata e sottolineata almeno da un filare di alberi; la sequenza dei boulevard occidentali è ben mantenuta; abbiamo poi una parte dell’edilizia, quella non residenziale, affacciata su una vera e propria strada principale con i suoi negozi da entrambi i lati cui le case, seppure non allineate lungo la strada fanno ragionevolmente capo; la strada è poi ritmata da una piccola piazza triangolare racchiusa tra le case; infine il grattacielo, ergendosi solitario, si presta bene a costituire un nuovo tema collettivo della città, come se fosse una nuova “porta della città”.