A quasi dieci anni dalla sua uscita in Gran Bretagna, Voland pubblica Marrakech (titolo originale Hideous Kinky), romanzo d’esordio di Esther Freud. Pronipote di Sigmund e figlia di Lucien, Esther Freud racconta in queste pagine le vicende della sua infanzia, trascorsa tra i vicoli, i mercati e le moschee di Marrakech e la Zaouia di Algeri.
Oggi che qualsiasi prospettiva per il futuro sembra sgretolarsi senza apparente soluzione (di continuità), fare un bagaglio leggero, indossare scarpe comode e partire per terre lontane non è un’ipotesi tanto folle come potrebbe apparire a un primo sguardo.
Così, quando leggiamo di Julia che parte per il Marocco portandosi dietro le figlie Lucy e Bea in un viaggio a cui si attacca alla perfezione l’etichetta della “ricerca di sé stessa”, non possiamo fare a meno di provare per lei una sottile e insidiosa forma di invidia.
Ma c’è poco da fare, anche perché sono gli anni Sessanta: Julia lascia a casa un chimerico marito, si immagina un padre assente, che viene nominato solo quando provvede o meno al suo dovere ovvero inviare soldi alla famiglia lontana.
Sull’intelaiatura flessibile e accogliente del viaggio per il viaggio, la storia imbastita da Esther Freud procede per accumulo: il fortunoso arrivo in Marocco, l’estate sul lago Barrage, gli spostamenti in autostop, gli alberghi improvvisati, l’hashish, il ramadan e l’elemosina.
Julia, Lucy e Bea attraversano un mondo puntellato di descrizioni realistiche e magiche: su tutto regnano i colori, gli odori e i sapori di una terra tutto sommato generosa, che solo l’ingenuità dello sguardo di Lucy preserva dal rischio di un esotico calligrafismo.
Lucy, così come Bea e forse un po’ come Julia, è solo una bambina, e ai suoi occhi Marrakech è una specie di regno fatato pieno di luoghi e personaggi mitici. Come l’hadaoui, un po’ acrobata e un po’ santone, che intrattiene la folla accorsa al mercato in cambio di pochi centimes. Proprio durante un’esibizione dell’hadaoui Julia incontra Bilal, l’uomo con il quale intreccia un legame largo e saldo allo stesso tempo: una specie di amore non del tutto libero.
Il paesaggio che agli occhi delle bambine appare più magico è senza dubbio il mercato: «Dopo aver girato un po’ per i vicoli del mercato coperto ci fermammo a un banco uguale a tutti gli altri. C’erano pile e pile di vestiti colorati e splendenti ammassate alle pareti e morbidi caffettani bianchi con fitti ricami intorno al collo. Eravamo all’entrata, simile all’ingresso di una grotta del tesoro, e guardavamo gli abiti scintillanti che venivano tirati fuori uno dopo l’altro, scossi e stesi ai nostri piedi. Scelsi un caffettano che ricordava un dipinto. Aveva macchie rosse come la liquirizia rossa e fiamme porpora e arancione.»
La decisione di Julia di portare con sé le figlie è allo stesso tempo responsabile e avventata: può una madre sottoporre consapevolmente alla più completa insicurezza le proprie figlie? O sarebbe stato meglio per Bea e Lucy se Julia le avesse lasciate in Gran Bretagna, in “compagnia” di quel padre appena nominato?
Il rapporto madre-figlia è uno dei nodi centrali del romanzo, anche se sembra rimanere sullo sfondo. L’educazione alla libertà, che Julia cerca di inculcare alle figlie, dà origine a due reazioni opposte: quella di Bea, così simile nello spirito – ma non nelle scelte – alla madre e altrettanto ribelle e distaccata; e quella di Lucy, più accomodante nei confronti di quella donna un po’ sui generis dalla quale non si stacca per nessun motivo. E non è solo una questione d’età: un modello così alternativo non può non suscitare totale accettazione o forte allontanamento, sebbene «i bambini sono sempre imbarazzati dalle loro madri».
Se è vero che la vita è ciò che ci succede mentre noi pensiamo ad altro, Julia, Lucy, Bea, Bilal e tutta l’allegra corte che li circonda pensano davvero a quello che succede loro intorno, vivendo: non fanno piani, aspettano di vedere quello che il tempo ha preparato e gli vanno incontro a braccia aperte. Fino alla fine, quando sono sul treno dirette verso casa e Lucy pensa: «Avrei tanto voluto sdraiarmi accanto a lei, ma pensai che fosse più sicuro restare sul sedile, nel caso mamma cambiasse idea e, invece di tornare a casa, decidesse all’ultimo minuto di saltare giù dal treno in una delle stagioni lungo il tragitto».
Nota sull’autore
Esther Freud è nata a Londra nel 1963. Pronipote di Sigmund e figlia del pittore Lucian, nel 1992 ha esordito in letteratura con Marrakech (titolo originale Hideous Kinky), romanzo da cui nel 1998 è stato tratto un film. Nel 1993 il magazine «Granta» l’ha inserita nella lista dei venti migliori narratori inglesi. Oggi è una scrittrice affermata e apprezzata e i suoi romanzi sono tradotti in tredici lingue.
Esther Freud, Marrakech
Traduzione di Monica Pesetti
Voland, 2011
pp. 208, euro 14,00
Per approfondire:
leggi la recensione di Marrakech su Wuz
leggi l’intervista a Esther Freud su Io Donna