Si svolge in questi giorni la prima grande mostra in Italia dell’artista guatemalteca Regina José Galindo, personaggio ‘scomodo’ che ha fatto della sua realtà un bacino concettuale per raccontare storie universali.
Crea performance realizzate in un’ottica di coinvolgimento totale, dove indaga la dimensione rimossa della sofferenza, utilizzando il proprio corpo, spesso nudo, in chiave polemica per denunciare le rovine della storia.
Nasce in Guatemala nel 1974, luogo di conflitti estremi, dove più del 90% dei delitti non viene risolto e il femminicidio è considerato un fatto “quasi normale”. Sono
Punta il dito contro la violenza sulle donne, il patriarcato, il potere politico, una società che ignora in sostanza le minoranze. La rabbia che prova, la trasferisce nella sua arte, creando figure indimenticabili. La sua è una ricerca priva di schemi, né di riferimenti, che scava nel profondo, graffia l’anima e arriva dritta come un pugno allo stomaco.
Dopo avere visto le sue rappresentazioni, niente può tornare come prima. Le opere in mostra sono divise in cinque aree tematiche: Politica, Violenza, Donne, Organico e Morte. Hanno sempre per protagonista l’artista, che diventa opera d’arte per restituire realtà scomode, brutali nelle quali il suo corpo, all’apparenza fragile, è esposto spesso a performance molto crude.
È tratta dall’esclamazione di una donna sopravvissuta all’orrore della guerra civile e al genocidio che Regina José Galindo ha incontrato al processo contro l’ex dittatore golpista Montt. Galindo dopo aver ascoltato una testimonianza agghiacciante, era scoppiata in lacrime. Questa donna, consolandola, le diceva: non piangere, non ti disperare, nonostante tutto siamo vive, ed è questo che conta. La performance parte da questo stesso assunto.
È un’azione contraddistinta da una pacata calma metaforica, altamente simbolica, in cui l’artista ribadisce alcune delle costanti della sua ricerca, come il legame indissolubile tra la vita e la morte, un atto di sospensione simbolica, in un certo senso”.
Durante una delle sue prime performance, “El dolor en un panuelo” del 1999, la Galindo si era fatta legare su un letto e proiettare
Dopo aver immerso i piedi nel sangue la performer cammina dalla sede del parlamento al Palazzo presidenziale di Guatemala City, lasciando impronte rosse in memoria delle vittime e per protestare contro la candidatura a presidente dell’ex dittatore Efrain Rìos Montt. In “Negociaciòn en turno” del 2013 una fila di persone, vestite di scuro, aspettano di poter portare una bara; mentre in “Cartejo”, sempre dello stesso anno, Regina Josè Galindo si fa riprendere sdraiata in una bara bianca, come una bambina.
Queste sono solo alcune delle sue opere, concepite come rappresentazioni teatrali. L’arte della Galindo non mira di certo a compiacere il mercato, né ad attirare le gallerie d’arte. Ella è attenta a ciò che le succede attorno, dà voce al dolore e alla sofferenza di migliaia di persone che la storia ha reso mute.
Written by Cristina Biolcati