Estratti dal romanzo “Sentieri di notte” (Galaad Edizioni) di Giovanni Agnoloni

Creato il 27 ottobre 2013 da Criticaimpura @CriticaImpura

Giovanni Agnoloni, Sentieri di notte, Galaad Edizioni 2012

Di GIOVANNI AGNOLONI 

Pagg. 11-12 (sponde del Lago di Lucerna) (INCIPIT) (INEDITO IN RETE)

Qui l’androide Luther ha appena preso coscienza di esistere:

 “Sopra di lui c’erano buio e stelle.

Era stato nascosto nella notte e nel silenzio, e aveva percepito suoni cui non sapeva dare un nome.

Lungo era stato il suo sonno, forse eterno. Un istante smarrito in oceani di tempi artificiali.

Si svegliò, sospeso a un’attesa che nasceva da quel vortice.

Tremava, insicuro del suo essere e appena cosciente della sua natura. Non sapeva chi fosse, ma avvertiva dentro di sé l’insorgere di un’essenza nuova, chiara come acqua di fonte riflessa in un orizzonte limpido.

Uscì definitivamente dal suo letargo distendendo a poco a poco tutte le articolazioni. Le giunture si sciolsero, liberando un formicolio vitale in quello che iniziava a identificare come il suo corpo.

Ancora sdraiato, alzò lo sguardo verso il cielo, di un blu intenso scintillante di gemme. Era la prima cosa che vedeva, da quando sapeva di esistere.

Pioveva, ma non fuori. Pioveva dentro la sua testa, in un luogo imprecisato. Effetti della programmazione del suo pensiero. Ultimato da poco, il suo cervello si stava aprendo per la prima volta alla conoscenza del mondo. La sua mente raffinatissima stava elaborando le nozioni di base che vi erano state immesse, unendole alla percezione diretta della realtà. Forse per questo era stato lasciato solo, di notte, sulle rive di un lago circondato dalle montagne, con le luci di una città che occhieggiavano lungo una sponda.”

Pagg. 19-23 (Cracovia) (già uscito su http://letteratitudinenews.wordpress.com/2012/11/24/sentieri-di-notte-di-giovanni-agnoloni-un-brano-del-libro/)

Qui Desmond O’Rourke ha appena indossato l’infravisore, speciale dono lasciatogli da Leyla prima di morire:

“All’inizio non successe nulla. L’effetto che l’infravisore produsse su di me fu quello di un paio di occhiali molto potenti. Riuscivo a vedere i contorni delle cose e i profili delle persone con una nitidezza assoluta. Era una sensazione di grande presenza, come se mi accorgessi del mondo per la prima volta.
Mi spinsi oltre il Wawel, isolato nella sua mole, e percorsi Ulica Kanoniczna sotto la tenue luce del crepuscolo. Poi svoltai in Ulica Grodzka, dove la gente conduceva meccanicamente le sue abitudini quotidiane nel tentativo di esorcizzare l’erosione di spazio in corso, e poco dopo raggiunsi il Rynek Główny, che aveva l’aria di un salotto abbandonato. Su un lato, il Fondaco dei Tessuti, elegante tenda gitana, ormai divenuto una stazione di confine. Sull’altro, la Basilica di Santa Maria, con le due torri diseguali.
Quello era il limite oltre il quale tutto cambiava.
Non c’era quasi nessuno, come se le persone evitassero di stazionare troppo a lungo in quello che pareva un campo militare prossimo a una frontiera pericolosa. Arrivai alla statua del poeta Adam Mickiewicz e mi ci appoggiai per osservare ciò che mi circondava. Dal campanile della Basilica un trombettiere stava suonando lo hejnał, la breve melodia mozza che veniva ripetuta ogni ora per ricordare un lontano assedio dei Tartari, sventato da una sentinella poi trafitta da una freccia. Lo sentii echeggiare per quattro volte, una per punto cardinale. La consuetudine era stata mantenuta, nella speranza che quel noto richiamo potesse servire da punto di riferimento per coloro che si smarrivano nelle periferie. Speranza vana, purtroppo. La città aveva perso, fino a quel momento, almeno un terzo dei suoi abitanti.
Fui colpito da un pensiero che mi lacerò il petto come una lama arroventata. Una volta avevo aspettato Leyla proprio in quel punto, per un appuntamento davanti alla libreria Empik. Lei non arrivava, e io avevo iniziato a preoccuparmi: aveva pure il telefono staccato. Poi, dopo un’ora, quando l’angoscia stava per prendere il sopravvento, l’avevo vista sbucare dal Fondaco dei Tessuti.
Oggi, invece, niente.
Il pavimento era freddo e umido, ed ero solo in prossimità dell’ignoto. L’unico mezzo che avevo a disposizione per orientarmi era quel misterioso oggetto. Le avevo chiesto perché l’avesse chiamato “infravisore”, ma non aveva voluto dirmelo.
Decisi di provarci, di crederci. Osservai attentamente e a lungo in direzione di Ulica Floriańska, puntando lo sguardo sull’unica porta rimasta in piedi della vecchia cinta muraria. Se ne intuiva il profilo in fondo, nella foschia. Finché, in un angolo, cominciò ad affiorare una luce: dapprima una pallida luminescenza, poi un alone diffuso. Mi provocò una pressione alla testa, costringendomi ad alzarmi e andarmene. Non potevo più aspettare. Muovermi era diventata un’esigenza improrogabile.
Camminai nella direzione indicata dalla luce, consapevole che quelli erano i primi passi nel territorio ibrido che preparava al caos della mutevolezza. Le cose avevano mantenuto un’apparenza di concretezza e solidità, benché la nebbia ne segnasse i margini con dito tremante. Quanto sarebbero durate, ancora? Passai sotto la porta e mi avvicinai al Barbacane con la netta sensazione che non fosse solo un piccolo fortilizio, ma un vero avamposto sull’Oltre. Al di là, già non vedevo più i palazzi a cui ero abituato e la lunga Plac Jana Matejki, ma file di casamenti solitari e sbreccati, isole di desolazione in un mare verde spento, giardini macchiati dalla polvere di stelle lontane, angoli d’ombra che evocavano ricordi di un passato remoto. Mi invitavano, striscianti. Avrei potuto fermarmi lì e restarci per sempre. Nessuno si sarebbe accorto di me.
Mai mi ero arrischiato a spingermi fino a quel punto, e soprattutto mai l’avevo fatto con quelle lenti speciali. Mi accorsi di una cosa che mi spaventò: quegli spazi mi lasciavano sprofondare in una malinconia velata di cenere, facendomi sentire piacevolmente imbalsamato, e forse per questo anestetizzato al dolore. Magari era quello di cui avevo bisogno, dopo le ultime settimane di annientamento emotivo.
Avanzai quasi senza accorgermene e, in risposta al mio movimento, la prospettiva iniziò a mutare. In lontananza, verso l’orizzonte vuoto, scorsi forme simili a grattacieli che si muovevano come pistoni, mentre le strade, di cui intuivo la presenza su quella vasta piana, si spostavano e mutavano orientamento come serpenti tenuti per la coda. Palazzi, sotterranei, canali e ponti abbandonati si rimescolavano seguendo una logica incomprensibile, come tasselli animati di un enorme puzzle. Sapevo che era solo un’illusione di realtà. Qui non viveva nessuno, e chi un tempo aveva popolato queste zone se n’era andato o si era irrimediabilmente smarrito, risucchiato in un vortice senza colore.
Dovevo orientarmi, riuscire a seguire quella luce, che adesso mi sembrava più tenue, trovare le strade che Leyla aveva desiderato che percorressi. Perché questo doveva essere il senso dell’infravisore: aiutarmi ad arrivare da qualche parte.
Quell’alone luminoso si spostava nella mia testa come l’ago di una bussola. Si riaccendeva quando voleva, fermandosi in un punto giusto il tempo di farmi muovere in quella direzione. Poi tornava a smorzarsi, per riprendere vigore subito dopo, ma in un altro luogo. Non avevo idea di come funzionasse, eppure riconoscevo le sensazioni che mi trasmetteva: sapeva di tempi lontani, e mi guidava restituendomi qualcosa di Leyla. Mi rimandava visioni fugaci dei nostri pomeriggi insieme, di passeggiate lungo il fiume, di cene tranquille con la televisione accesa.
Non c’era un nesso reale tra ciò che vedevo intorno a me e le percezioni che mi arrivavano attraverso quella luce.
Ma sentivo che dietro tutto questo c’era lei. Che stava tentando di dirmi qualcosa.”

Pagg. 65-68 (nel Bianco) (INEDITO IN RETE – E’ LA PARTE PIU’ SPICCATAMENTE CONNETTIVISTA)

Qui Desmond O’Rourke sta attraversando il Bianco, e comincia a ricevere delle visioni e ad attraversare degli spazi che sollecitano le sua memoria obnubilata:

“Il magazzino era vuoto. Le pareti, che una volta dovevano essere state bianche, erano coperte da una patina grigiastra; il pavimento invece era di colore scuro, quasi nero. Il soffitto bucherellato lasciava indovinare ampi spazi, velati di ragnatele vecchie decenni. Se avessi avuto una chiara idea della parte della città in cui mi trovavo, forse avrei capito di quale edificio si trattava. Ma ero quasi certo di non avere mai visto niente del genere.

Mi accorsi che non si udivano suoni né rumori. Tutto era avvolto in un silenzio pneumatico. Non mi sentivo agitato, ma esposto. La mia pelle era come volata via, i miei nervi erano scoperti, le memorie del mio terzo occhio focalizzate su qualcosa che non riuscivo a identificare.

Improvvisamente mi resi conto che la mia luce-guida non pulsava più. Era scomparsa, dissolta nel silenzio, forse perché me ne accorgessi quando ormai era troppo tardi. Quando dovevo per forza procedere, e c’era un’unica direzione possibile.

Una porta, in fondo. Metallica, grigio-chiara.

Un ascensore.

Non appena lo visualizzai, iniziai a percepire un cicalìo lontano, simile al suono di migliaia di insetti. Erano diecimila aghi che pungevano ripetutamente la mia sfera percettiva con messaggi incomprensibili. Sotto, premeva ritmicamente un palpito grave, con l’insistenza di bassi da discoteca. La vibrazione di base mi risucchiava verso la porta, costringendomi a muovermi in quella direzione.

Giunto davanti all’ascensore, con la punta delle dita sfiorai le porte metalliche, che si aprirono immediatamente. Esitai, trattenendo il fiato, accompagnato solo dalla luce balbettante del neon sul soffitto. Avevo il cuore in pezzi, come già era accaduto in un altro momento della mia vita, benché non riuscissi più a focalizzarlo.

Quando iniziai a scendere, seppi in modo inequivocabile che stavo andando lì.

Provai terrore puro.

Un bruciore vivo ardeva all’altezza del mio sterno, fino alla bocca dello stomaco, mentre l’ascensore continuava a scendere con lievi sussulti. Anche la vista si stava annebbiando, come se fossi a un’enorme profondità sotto il mare, soggetto a una pressione insostenibile.

Gli aghi si erano indeboliti e i bassi erano cresciuti di frequenza, fino a diventare un rombo uniforme. Il panico restò un attimo sospeso, e mi si aprì una breccia di speranza, inspiegabile ma reale.

Il neon si ristabilizzò e la porta si aprì. Mi trovai davanti a un’aula antica e tetra, piena di giovani in abito da sacerdote che ascoltavano un alto prelato con l’aria da docente. Non ne ero sicuro, ma qualcosa nella mente e nel cuore mi diceva che avevo già avuto a che fare con quell’uomo. Sì, ci eravamo già incontrati, in passato, e più guardavo il suo volto, più quel pensiero si faceva certezza. I suoi lineamenti mi erano familiari, ma al tempo stesso era come se avessi cercato con tutto me stesso di dimenticarli. Non era una sensazione piacevole. Era un incubo che diventava reale.

Fu solo a quel punto che l’infravisore si riaccese.

La luce pulsò forte a destra, verso un’altra sala, piena di gente che ballava. Era una discoteca, o un locale universitario dove era in corso una festa. La musica che faceva muovere tutti quei corpi non era udibile. I bassi, prima così vivi, si erano dissolti nelle parole incomprensibili del sacerdote, per poi trasformarsi nel moto ondoso di un’intera massa umana.

Tutto era nero e denso, al di là di un vetro che mi separava da quello scenario.

Poi la luce si spostò in un altro punto, illuminando un volto che avevo dimenticato, tanto il dolore e il tempo l’avevano cambiato.

Così bello e radioso da sconvolgermi la vita.

Leyla mi sorrise come nel giorno in cui l’avevo

conosciuta.

Allora ricordai.”

Pagg. 146-148 (Berlino) (già pubblicato su http://www.ilnuovoberlinese.com/sentieri-di-notte-un-passo-del-romanzo/): 

Qui Piotr Woźniak è uscito dal suo rifugio negli Hackesche Höfe e attraversa il quartiere ebraico di Berlino, cercando di avvicinarsi ad Alexanderplatz per vie traverse.

“Tutto sembrava deserto. Le case erano mute, le persone rannicchiate al loro interno come animali spaventati. Si preparava un lungo letargo, che avrebbe richiesto una forte resistenza. Strano che Oranienburgerstraße non fosse presidiata. Forse perché si trattava di una strada popolata di notte da bellissime prostitute, che rubavano gli sguardi destinati durante il giorno alle facciate dei palazzi del quartiere ebraico. Ma adesso anche loro latitavano. La via era un guscio vuoto, l’esoscheletro di un’esistenza finita.

Mentre camminavo, inspiravo l’aria fresca. Avrebbe potuto essere una notte magica, di pace e armonia. Ma c’erano quei soldati. Ero sdegnato per quella violenza gratuita, perpetrata a tradimento. A volte militari in azione popolavano i miei incubi. Avevano turbato il mio sonno fin da bambino, quando i miei mi raccontavano le storie della Polonia comunista, e adesso l’idea stessa di una pattuglia in azione mi angosciava. Vedevo ancora quei fotogrammi sgranati in bianco e nero, con uomini in divisa dagli sguardi spogliati di ogni pietà. Quelle immagini evocavano dentro di me solitudine e smarrimento, e l’impossibilità che ci fosse un domani: cunicoli bui e claustrofobici, che erano stati parte anche della storia di Berlino e disegnavano un reticolo per le vie della città prima nazista, poi sovietica. Un puzzle di tasselli di orrore totalitario ne tappezzava l’anima e la topografia, e il golpe del Sistema li aveva riportati a galla, spazzando via le luci, i colori e il fermento di anni di rigoglio tecnologico.

I ristoranti di Oranienburgerstraße, che solitamente richiamavano stuoli di clienti attirati da una scia di profumi appetitosi, mostravano tristi serrande abbassate.

Mi fermai dopo aver dato un’occhiata di sfuggita alla stazione della metropolitana all’angolo con Tucholskystraße. L’ingresso era sbarrato da una cancellata. Avevo vagheggiato l’idea di utilizzare il tunnel sotterraneo, certo che i treni fossero stati bloccati. Non me la sentivo di avventurarmi a cielo aperto per le strade interne, da dove giungevano rumori sommessi. Sarei andato più avanti, per poi tentare di rientrare verso il centro da Friedrichstraße.

Ma in fondo alla strada il silenzio ricominciò a frammentarsi. Movimento. Qualche luce di faretti autoalimentati.

Sgusciai di lato non appena giunsi all’altezza di un vecchio edificio gestito da hippy, che dopo lunghi anni di abbandono era stato dichiarato patrimonio artistico, coi suoi murales a perdita d’occhio che quasi ne corrodevano le pareti. Un luogo abbandonato, quasi l’ologramma di un passato svanito.

L’antro era oscuro, una specie di tana contorta, dove solo pallidi raggi di luce lunare filtravano dall’esterno e consentivano un sia pur minimo orientamento. In un corridoio laterale vibrava un neon: qualche accumulatore era ancora in funzione, ma chissà quanto avrebbe resistito. A terra giaceva un tossico quasi privo di sensi, con lo sguardo perso e la mano protesa, farfugliando parole incomprensibili. Era il primo essere umano che vedevo, dopo il putsch. Doveva essere collassato subito prima del black-out, senza accorgersi di nulla.

Salii al piano superiore e mi affacciai con prudenza a una finestra che dava sulla strada. C’era un’altra camionetta, all’incrocio con Friedrichstraße. Vidi uomini in armi. Non potevo passare da lì.

Per un attimo ebbi la sensazione di essere braccato, e che sarebbe stato impossibile abbandonare quel palazzo e raggiungere Alexanderplatz. Poi ricordai di aver letto che una volta gli hippy che lo gestivano organizzavano feste alcoliche sul retro, dove un muro separava l’edificio da un parcheggio. Attraversai di nuovo le buie stanze tappezzate di intonaco e moquette rancida, scesi al piano di sotto e aprii una porta metallica. Dava su un muro sbreccato che faceva da appoggio per cumuli di ferraglia e immondizie varie. L’umidità aveva reso tutto più sdrucciolevole, ma ci salii sopra in tre balzi, fino a sporgermi con la testa sopra quella barriera.

Davanti ai miei occhi si apriva, desolante, una terra di nessuno, come quella che un tempo separava il Muro Est da quello Ovest. Mi sentii proiettato nell’abisso del Ventesimo secolo, che percepii sulle mie ossa vivo e penetrante come una pioggia gelida. Si era alzato un vento leggero che faceva fremere un arbusto di sterpi poco distante. La luce lunare enfatizzava i dettagli di quel paesaggio brullo e malinconico. Era uno scenario di abbandono, un palcoscenico sguarnito dove tra qualche istante mi sarei dovuto muovere come un felino, per non destare sospetti. L’area di quel parcheggio non era mai stata sfruttata, per qualche vincolo edilizio che non conoscevo. Una delle poche zone franche, in un territorio superurbanizzato. Mi spinsi col busto oltre il margine del muro e lo scavalcai con una gamba.

Tirai il fiato. Cinquant’anni fa una raffica di mitragliatrice mi avrebbe falciato all’istante. Ma ero nel presente, sia pur intriso dell’anima più nera di quel tempo, che pareva riportato in vita da un non luogo che pian piano stava diventando realtà. L’unica arma a mia disposizione era il rifiuto: rifiutarmi di credere che quel mostro esistesse, andare avanti e sconfiggerlo.

Scavalcai anche con l’altra gamba e mi lasciai cadere.”

Sentieri di notte

Galaad Edizioni (collana “Larix”, diretta da Davide Sapienza – 2012)

Pagg. 230

ISBN:978-88-95227-79-5

Prossima uscita in edizione spagnola (Senderos de noche), per la traduzione di Giovanni Agnoloni e Amir Valle (http://amirvalle.com/

GIOVANNI AGNOLONI è nato a Firenze nel 1976. Laureato in legge, è scrittore, traduttore e blogger. Ha pubblicato il romanzo Sentieri di notte (Galaad, 2012; http://www.galaadedizioni.com/schede/sentieridinotte.htm   ), espressione del movimento connettivista e a breve in uscita in edizione spagnola, e i saggi Tolkien e Bach. Dalla Terra di Mezzo all’energia dei fiori (Galaad, 2011; http://www.galaadedizioni.com/schede/tolkienebach.htm) Nuova letteratura fantasy (Eumeswil e Sottovoce, 2010) e Letteratura del fantastico. I giardini di Lorien (Spazio Tre, 2004).

È curatore, co-autore e traduttore della raccolta di saggi su J.R.R. Tolkien Tolkien. La Luce e l’Ombra (Senzapatria, 2011) e co-traduttore (con Marino Magliani) della raccolta di saggi su Roberto Bolaño Bolaño selvaggio (Senzapatria, 2012). È redattore dei blog La Poesia e lo Spirito (http://www.lapoesiaelospirito.it/) e Postpopuli (http://www.postpopuli.it/) ed esponente del movimento letterario del Connettivismo (ha partecipato all’antologia connettivista, a cura di Sandro Battisti e con la partecipazione di Valerio Evangelisti, AFO – Avanguardie Futuro Oscuro, Kipple Officina Libraria, 2010).

Collabora con il quotidiano “Corriere Nazionale”. Dei suoi racconti e reportage di viaggio sono sul blog “Nazione Indiana” e sul sito “AlibiOnline”.

Traduce da inglese, spagnolo, francese e portoghese. Tra le opere da lui tradotte, i romanzi Non lasciar mai che ti vedano piangere (Anordest, 2012) e Le porte della notte, dell’autore cubano Amir Valle (Anordest, 2013), il saggio La saggezza della Contea di Noble Smith (Sperling & Kupfer, 2012) e i romanzi Nel cuore oscuro del male di Peter Straub e The Surrogate, di Tania Carver (Anordest, 2013).

 


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