Estratto di un vecchio, vecchio, racconto. Mio.

Da Robbertopoli

E' la prima volta che mi capita di postare un racconto ( mini racconto? parte di un racconto? ) sul Blog, perché non ne ho mai sentito il bisogno. Nemmeno ora, a dirla tutta, ma mi annoio e non ho di meglio da fare. Quindi posto qualcosa di molto, molto, personale. E molto, ma molto, vecchio.  Ci sto quasi ripensando, no, non ci ripenserò. Tanto nella mia cartellina prende la muffa, quindi meglio così. E poi nessuno commenta mai una fava nei disegni, perché mai dovrebbero esserci commenti sotto un racconto?
Uhmf. Ottimo modo per convincermi a farlo.
Questi quattro pezzi sono un piccolo estratto di una roba lunghissima, che se dovessi riprendere in mano oggi la rifarei da zero. Cosa che non farò, quindi me la farò - e ve la farete - andar bene così.
E buona domenica a tutti.


I. CAPITOLO .Innocenza Mantenevo il ritmo, leggero e costante. Premevo e lasciavo, affondavo e aspettavo, il silenzio della sala era interrotto solo dai miei ansimi. Sotto di me Lei, forse in attesa di qualcosa da parte mia o forse altro perché quello che stavo facendo non era abbastanza. Eppure la forza che stavo mettendo in quella danza era troppa, fino a quando i muscoli delle braccia non iniziarono a farmi male, i tendini tesi, i primi avvisi dei crampi alle dita. “ Basta così, Leo! ” Strinsi i denti, senza ascoltarla, continuando. Ancora e ancora, fino a farmi del male fisico. Un rumore secco, di un osso che si rompeva sotto le mie mani, e un urlo perentorio che mi intimava di fermarmi “ Ho detto basta, per Dio! ”. Qualcuno mi prese malamente, spostandomi da sopra la barella, facendomi cadere a terra sul pavimento piastrellato di bianco. Presi una bella botta, ma in quel momento non ci diedi peso. La dottoressa Germani mi guardava con occhi sbarrati, chiaramente scontenta del mio operato. Sopra la barella, Lei. Lei. Piccola e fragile. Non ero riuscito a salvarla. Non ero riuscito a riportarla indietro. .Neve Restai in sala d’attesa per ore a fare quello che si fa in una fottuta sala d'attesa: attendere. Testa bassa, provando vergogna, fissando le mie mani ricolme di sangue. Col pollice cercavo di scrostarne quanto più possibile, inutilmente. Sentivo gli occhi del vecchio sulla destra che mi fissavano, occhi curiosi, insieme alla sua voglia di sapere, di domandare, e invece non si azzardò. Nemmeno una sillaba, e come lui tutte le persone che mi circondavano se ne restavano a distanza. Attorno a me sedie vuote. “…Leo ” Una voce calma, ma sicura, si insinuò come una freccia nel mio cervello, svegliandomi dal coma. La guardai, con gli occhi spenti per pochi secondi, prima di tornare alle mie mani e al sangue. L'impegno per toglierlo era diventato il doppio. “Andiamo Leo, ti accompagno al bagno” Non disse altro e mi prese sottobraccio, portandomi di peso al bagno degli inservienti. Mi risvegliai quando vidi il mio riflesso davanti allo specchio, notando Alice impegnata a lavare le mani con acqua e sapone. Strofinava vigorosamente, ma non andava via nulla. La colpa era entrata fino in profondità. E non c'era sapone che riuscisse a togliermi quella sensazione di dosso. “Non è stata colpa tua, hai fatto il possibile.” Disse, guardandomi di sottecchi, riprendendo subito dopo a far scorrere l’acqua per sciacquarmi le mani insaponate. L’acqua era gelida. “Non l’ho salvata”. Mi guardò, ora con più insistenza, abbracciandomi. Mi strinse forte, sentivo l’odore dei suoi capelli sulla faccia, ma non ricambiai l’abbraccio restando flaccido e apatico nella sua stretta. “Eri li’ durante l’incidente, hai voluto intervenire. L’hai portata qui, hai cercato di salvarla … quel camion ne ha uccisi sette su nove. Era una bambina, era... troppo piccola. Non puoi fare miracoli. Se così giovane…” La spinsi via, non avevo voglia di sentire altro. Più tardi avrebbe sicuramente ripreso il discorso a casa, sotto le coperte, o magari davanti alla televisione accesa che non guardava mai nessuno. Quindi non c’era motivo di proseguire quella conversazione nei cessi dell'ospedale. Attraversai il corridoio del San Raffaele, uscendo dal reparto ustionati, per andare a recuperare il mio cappotto. In meno di dieci secondi ero fuori. Era Dicembre, nevicava, ed ero certo che Lei avrebbe voluto vedere quel velo di bianco che copriva Milano. Così Natalizio, e rassicurante. Gelido e Freddo, come la morte. .Zapping Alice tornò a casa presto, considerati i suoi soliti orari, trovandomi seduto sul divano a fare zapping. In realtà non guardavo i canali che stavo cambiando. Era più che altro un gesto che sembrava placare il mio cervello in subbuglio. Non disse niente, si limitò a guardarmi per diverso tempo nel buio, mentre si sfilava il cappotto. Si avvicinò, sedendosi a cavalcioni su di me. La guardai, contrariato, cercando di spostarmela di dosso. “Non sono dell’umore, Ali”. “E io non lo ero ieri, però non ricordo di avere fatto storie” Sorrise, baciandomi l’orecchio un paio di volte, prima di morderlo. Fece male, più male del solito, per questo mi ritrassi incontrando lo schienale del divano “Dico sul serio.” Lei rise, ma non si degnò di darmi ascolto, continuando la sua sceneggiata da donna vogliosa. Rimasi immobile, forse solo per farle capire che non c’era proprio modo quella sera. “Leo, che palle!” Esclamò allargando le braccia come se non capisse dove stesse il problema “E’ il nostro lavoro, ricordi? Sei un Borsista, dovresti sapere che la gente ci muore negli ospedali!” “Oh, e a quest'idea tu ti ci sei già abituata, uh?” ”Certo che no!” Rispose brutalmente “Ma voglio comunque scopare!” A quella risposta alzai gli occhi al cielo “Quanta finezza, tesoro. Ora sì che mi è salita la voglia.” Quello la fece andare su tutte le furie. Sbraitò per un po', sul come fossi incapace di affrontare la vita - o la morte in questo caso - e un sacco di altre cose che non credo c'entrassero poi molto col discorso. Ricordo ad un accenno alla lavatrice.
Poi la porta della camera sbatté.
E mi ritrovai solo.
Solo con la mia tv, libero di dar vita ad un nuovo e furioso zapping.
.A Centottanta Aspettai l’alba per fare le valigie recuperando le poche cose che avevo a casa sua. Tutto sommato me la cavai in dieci minuti scarsi, prendendo tre paia di jeans, di cui due sporchi, e qualche camicia. Il cappotto, le scarpe, ed ero già pronto a varcare la soglia della porta. Alice nemmeno se ne accorse, troppo impegnata a sognare Brad Pitt – o chi per lui – e russare. Per Dio, russava più di me. Chiusi la porta alle mie spalle, avanzando per il corridoio. L’unico vero problema fu caricare la valigia sulla moto, e dopo una paio di tentativi, decisi di abbandonarla sul marciapiede “ E chi se ne fotte “. Presi il casco – un omologato ultimo modello, nero e giallo – e salii sulla mia kavasaki verde. Avevo speso tutto per averla, e da quel momento l’avevo sempre tratta come una figlia. Avviai il motore e mi allontanai per viale Padova, senza una meta precisa. Qualche ora più tardi ero già fermo in un autogrill, a riscaldarmi le chiappe e le mani, visto il gelo polare di Dicembre. Un caffè in un bicchiere di cartone, una brioche plasticosa, una capatina al bagno ed ero già pronto per ripartire. Il telefono squillò. Numero anonimo. “Pronto?” “Ti sembra il caso di lasciare il lavoro proprio oggi?” Sorrisi, era Gennara della Reception del San Raffaele. “Ciao cara.” “Non fare il puttanone con me! La Germani ti cerca, hai saltato il primo turno, sei impazzito?” “Dille che mi sto licenziando” Seguì qualche secondo di silenzio, interrotto da un respiro profondo di una fumatrice incallita “Leo, per l’amor di Dio, non fare cazzate. E’ il tuo futuro” Mi scappò una risata, le dissi che il suo culo batteva tutti quelli delle zoccole ventenni che si aggiravano da noi, e riattaccai. Non mi sentii mai più così libero come quella mattina. Con il sole alle spalle, e l’aria sul collo, percorrevo l'A1 a centottanta.

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