EST(r)FATTO: La mafia dell’amianto dalla Russia al Brasile

Creato il 28 febbraio 2012 da Eastjournal @EaSTJournal

di Matteo Zola

La sentenza Eternit è una sentenza miliare, pietra che segna il percorso di una giustizia che non può veder finire qui il suo cammino. Chi scrive ci è nato a Casale Monferrato e come tutti in città ha visto i suoi morti. Come tutti sa di essere il prossimo della lista perché il male, quel male polverizzato che si conficca nei polmoni, ha una latenza che va dai quindici ai quarantacinque anni. E il picco di mortalità deve essere ancora raggiunto.

La sentenza ha parlato di “una grande ingiustizia internazionale che si è consumata e si sta consumando in tutto il mondo”. E perché l’eternità del materiale non sia – oltre che la durata del male – la misura dell’ingiustizia, occorre volgere lo sguardo oltre il meridiano della nostra pena in parte appagata, ricomposta, dalla sentenza di condanna a sedici anni di reclusione per i magnati della holding, lo svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis de Cartier.

Casale Monferrato è stata sede del primo e più grande impianto dell’Eternit, è stata definita la città simbolo della lotta all’amianto. Ma la sentenza non è una vittoria: solo un’occasione di richiudere le ferite. Solo il punto di partenza per una lotta di più ampio respiro. Il risultato, finalmente, sta sullo zero a zero.  Casale Monferrato è appena un grano di giustizia. Perché sono 500mila le vittime d’amianto stimate in Europa entro il 2029, mentre l’estrazione e la lavorazione della fibra assassina sono in aumento grazie alla richiesta di Paesi dall’economia in feroce crescita, come Cina e India. I produttori, gli aguzzini, stanno altrove: Canada, Brasile e Russia.

Il Canada è l’epicentro di questo dramma morale, maggior esportatore mondiale alla fine degli anni ’80 è ora il quarto produttore globale. Trattiene però in patria poco o nulla: ben il 97% della produzione si riversa sui mercati dei Paesi in via di sviluppo dove l’amianto non é bandito. Nulla di male secondo i canadesi, ideatori della “teoria dell’uso controllato” che si basa sulla convinzione che nei Paesi in via di sviluppo esistano le tutele lavorative, sindacali e tecnologiche per ridurre la polvere dell’amianto sotto i livelli di guardia. Il governo inoltre sostiene che l’amianto canadese, crisotilo o amianto bianco, non sia particolarmente cancerogeno. La lobby del crisotilo (Istitut du Chrysotile o Chrysotile Institute) é molto attiva nel finanziare le campagne elettorali canadesi ed incoraggia l’uso dell’amianto nel mondo. Per ben due volte ha tentato per via legale (attraverso il WTO, l’organizzazione mondiale del commercio) di fermare la messa al bando dell’amianto in Europa, entrata poi definitivamente in vigore all’inizio del 2005.

Ma i canadesi non muoiono? Sì, muoiono, eccome. Secondo i dati del ministero della Sanità canadese gli individui di sesso maschile del Quebec, area dove si concentrano gli impianti di lavorazione, registrano il quarto tasso mondiale di incidenza del mesotelioma mentre per le donne si registra la più alta incidenza di malattia al mondo. Nonostante questi dati siano di pubblico dominio, la maggior parte dei sindacati del Quebec difendono l’attività estrattiva dell’amianto. Anche la comunità scientifica locale è fredda.

Mai fredda come la coscienza russa, impassibile davanti alle evidenze mediche e alla comunità scientifica internazionale (è dal 1964 che si conosce la pericolosità dell’amianto). La Russia, dopo esser stato uno dei maggiori produttori durante l’oblio sovietico, produce oggi circa la metà dell’amianto mondiale ma nessun dibattito sulla pericolosità della fibra ha mai accompagnato la sua sua escalation industriale. In seguito al bando della Comunità Europea, la Russia di Putin ha instaurato una commissione di esperti per indagare la materia, ma il loro lavoro si è risolto nel 2002 con una protezionistica (e definitiva) difesa dell’amianto.

In Brasile, oggi quinto produttore mondiale e primo dell’America Latina, la produzione di amianto, estratto principalmente nella regione di Goias, ebbe un’incremento sostanziale nel decennio che seguì il golpe militare del 1964. Nelle metropoli ha preso la forma di cisterne d’acqua, tettoie, tubature, mentre le favelas delle grandi città sono dedali d’amianto. Nel Paese latinoamericano il divieto di produzione e utilizzo è locale. Il mandato presidenziale di Lula si contraddistinse per lo sforzo (vano) di arrivare al divieto nazionale: la pressione dei lobbisti dell’amianto fu più forte e la questione uscì dall’agenda politica. Secondo Niccolò Bruna e Andrea Prandstraller, autori del documentario “Polvere. Il grande processo all’amianto”, gli esponenti sindacali che denunciarono azioni di pressione politica da parte dell’azienda attraverso l’elezione in parlamento di candidati “amici”, e gli ispettori del lavoro che rilevarono condizioni di produzione non conformi alla legge, sono stati uccisi e intimiditi. Il giro d’affari di questa “mafia dell’amianto” si aggira intorno ai 250 milioni di dollari e vede il proliferare di migliaia di piccoli impianti di lavorazione – di cui molti illegali – dove non è infrequente che minori siano impiegati come manodopera a basso costo.