Il romanzo è lastricato di buone intenzioni, come l’inferno (e non uso quest’espressione banale a caso). Ma a quanto pare, facendo un giro in rete, solo queste intenzioni sono state recepite dai lettori (o meglio dalle lettrici) e da qualche libraia. Eppure, un romanzo per essere buono deve avere più di una storia più o meno credibile e di una morale. Et puis, Paulette… invece ha solo quelle: lo stile è oltremodo minimalista (si va raramente oltre la frase soggetto – verbo – complemento), il vocabolario è povero, i modi di dire banali abbondano (tipo appunto l’inferno è lastricato di buone intenzioni, tutte le frasi fatte possibili, e se in francese si dicesse “non ci sono più le mezze stagioni”, siate certi che la frase figurerebbe nel libro). La storia è eccessivamente melensa, tutti sono buoni e bravi e com’è bello il mondo, e mi ha ricordato la canzone di un film dell’ottimo Jean Yanne, Tout le monde il est beau, tout le monde il est gentil (Tutti essi sono belli, tutti essi sono gentili) che era però un’ovvia presa per i fondelli.
In sintesi, un uomo di una certa età, rimasto solo nella sua fattoria dopo che il figlio con moglie e nipotini hanno deciso di andare a vivere per i fatti loro, comincia ad ospitare a casa sua prima la vicina sessantenne in difficoltà economiche il cui tetto non ha resistito alla bufera e che ha perso anni prima le due figlie (lacrimuccia), poi l’amico rimasto vedevo e che si sta lasciando andare fino all’inverosimile, in seguito due donne molto anziane cognate fra loro che vivevano insieme, poi una ragazza in cerca di una sistemazione perché sfrattata, allieva alla scuola infermieristica, per poter fare le iniezioni a una delle anziane, e infine un adolescente che a scuola studia agraria, anche lui in cerca di casa, che potrà coltivare l’orto della vicina sessantenne. Non mancano l’asino simpatico e il cane, e alla fine anche un neonato.
In tutta questa melassa di buoni sentimenti e di perfette coincidenze (toh, guarda, avevamo avuto la stessa idea di andare alla scuola di infermieri a cercare qualcuno per badare alla vecchia; toh avevamo tutti e due pensato di accogliere le anziane; oh, giustappunto al liceo c’è un ragazzo che fa per noi…) rileviamo una sequenza improponibile di assurdità: c’è una scuola per infermieri in un villaggio in mezzo alla campagna? Un ragazzo che va ancora a scuola, minorenne, può essere (se non per le necessità del copione) che viva da solo e si arrabatti con dei lavoretti per pagarsi una stanza? Le due vecchiette cui viene chiesto di trasferirsi nella fattoria, guarda caso avevano deciso di suicidarsi insieme quella sera stessa perché temevano di perdere la casa per colpa di un nipote ansioso di venderla che le minaccia. Su che base questo nipote le minaccia? E come mai poi la casa dopo che loro l’hanno lasciata sta ancora lì e del nipote non v’è più traccia? E l’apprendista infermiera che alla fine dà alla luce una bambina, davvero possibile che né lei né nessun altro si fosse accorto che fosse incinta fino a cinque minuti prima del parto? E chi è il padre?
Nell’intenzione dell’autrice (scrittrice non direi) la morale e quindi lo scopo del libro è mostrare che è bello aiutarsi, che persone di diverse generazioni possono dare qualcosa l’una all’altra e aiutarsi a vicenda, che vivere in comunità fa stare meglio e fa risparmiare, e coroniamo il tutto con l’arrivo di un bimbo in modo da mostrare che la storia può continuare anche in futuro.
Ho bisogno di un’iniezione di insulina.
Aspiranti scrittori, prendete ad esempio questo romanzo, e fate tutto il contrario.
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