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Etnicità 29. W.H. McNeill: Polietnicità pre-moderna e omogeneità etnica (parte 1).

Creato il 25 luglio 2014 da Davide

Lo storico canadese-americano William H. McNeill, specializzato in ‘world history’, pone l’ubiquità dell’etnicità nel contesto dei fattori che hanno prevalso per gran parte della storia, cioè conquista e schiavitù di popoli nomadi, commercio su lunga distanza, malattie endemiche e necessità di ricostituire forza lavoro urbana. Tutti questi fattori portano alla costituzione di gerarchie polietniche nei centri di civiltà. Solo ai margini del mondo civilizzato, in Giappone e nell’Europa nordoccidentale, stati più omogenei etnicamente riuscirono a sopravvivere. Quanto segue proviene dal volume Polyethnicity and National Unity in the World History, 1986. Toronto: Toronto University Press, pagg. 12-22.
Gli schemi di diffusione delle malattie in epoca antica, medievale e moderna erano tali da rendere necessario importare forza lavoro e, in parecchi casi, quando l’immigrazione spontanea dalla campagna circostante era insufficiente, si ricorreva alle razzie di schiavi per sopperire alla penuria di lavoratori, muovendosi attraverso confini culturali più ampi e distanze maggiori per rendere attiva forza lavoro non libera. Il risultato, ovviamente, era la mescolanza etnica e il pluralismo su vasta scala nei centri urbani imperiali e una mescolanza meno complessa nei centri urbani provinciali, la cui area di azione per l’acquisizione di manodopera immigrata era minore e meno variegata delle aree di approvigionamento necessarie a sostenere capitali imperiali.
L’omogeneità etnica prevaleva solo in aree remote e barbare. Tribù nomadi e altre comunità non civilizzate (qui McNeill adotta l’idea classica che civile, cioè appartenente alla civitas- città, equivalga a civilizzato, idea che permane nel termine francese civilisation per ‘cultura’, mentre l’italiano distingue tra civiltà e inciviltà, civile e incivile, con sottintesi apprezzamenti di merito) potevano conservare la semplicità e la solidarietà di società che permettevano a governanti e governati di appartenere alla stessa comunità culturale e biologica. Tuttavia persino in queste comunità talvolta penetravano degli estranei, forse solo a volte come ospiti temporanei, tentando il gusto locale con merci strane ed esotiche e dimostrando fino a dove potessero giungere lo sforzo e l’abilità umana.
Quest’ultimo fenomeno mostra un terzo fattore nella vita civilizzata che assicurava la mescolanza etnica: lo scambio commerciale attraverso confini culturali attraverso qualche tipo di commercio organizzato. Merci di valore originate in località identificabili – merci come le chegge di ossidiana dall’isola di Melos nell’Egeo o il rame nativo dalle rive del Lago Superiore – compivano viaggi su lunghissime distanze in tempi preistorici, anche se come si muovessero esattamente di mano in mano non ci è noto. Quando rescoconti scritti cominciarono a gettare un po’ di luce sulle vie del commercio, il commercio su lunga distanza era già diventato un’occupazione specializzata. Un ritrovamento di registrazioni mercantili in Asia Minore mostra che si erano già sviluppate leggi e costumanze per la condotta delle carovane nell’antico Medio Oriente fin dal XIX secolo avanti Cristo.
Ma con l’importazione di merci che diventava parte dell’attività quotidiana, in proporzione anche un altro tipo di mescolanza di popoli divenne normale e necessario. Era probabile che i mercanti che giungevano da lontano si trattenessero almeno fino a che non avevano accumulato un adeguato carico per il viaggio di ritorno. E alcuni mercanti stabilirono la loro residenza permanente allo scopo di agire come agenti per i loro colleghi e/o eseguire altri servizi specializzati all’interno della comunità ospite. Il commercio su lunga distanza perciò fece sorgere comunità permanenti di stranieri nei maggiori centri urbani. Queste diaspore di mercanti e artigiani, come l’antica schiavitù, ebbe definizione legale fin da tempi molto antichi, come dimostrano i diritti dei mercanti prescritti dalle leggi di Hammurabi.
Secoli più tardi, a cominciare dal 500 a.C., il sorgere di religioni trasportabili e universali, come il buddismo, il giudaismo, il cristianesimo e l’islamismo, oltre ad altre religioni meno fortunate come il manicheismo, fornirono un carapace culturale efficiente per le diaspore commerciali, isolandole dal loro circondario in materia di fede e famiglia come mai era avvenuto prima. Le religioni trasportabili, infatti, permettevano ai seguaci di quelle fedi che differivano da quella prevalente nella società circostante di mantenere un’identità comune separata indefinitivamente, generazione dopo generazione. I ghetti ebraici dell’Europa occidentale illustrano questa possibilità, in contrasto con un gruppo come i lombardi, che diedero il loro nome al centro finanziario di Londra, ma che alla lunga non riuscirono a mantenere un’esistenza separata in una società di cui condividevano la religione.
Nei centri più antichi e attivi della civiltà eurasiatica, cioè nel Medio Oriente e nei territori immediatamente adiacenti, perciò, la mescolanza di popoli diversi nei centri urbani attraverso la conquista, la schiavitù e il commercio su lunga distanza ebbe come risultato la creazione di una serie di nicchie sociali abitate da questo o quel gruppo etnico. Tali gruppi entravano in rapporti convenzionali e relativamente ben definiti tra di loro, secondo una catena alimentare di prestigio e deferenza. Sconvolgimenti in tale ordine avvenivano ogni volta che c’era una conquista nuova e altri shock, per esempio il sorgere di un nuovo movimento religioso come quello associato con il nome di Sabbatai Sevi tra gli ebrei dell’impero ottomano nel XVII secolo, che potevano alterare l’allineamento e l’equilibrio etnici in modo piuttosto brusco. Ma in tempi normali, tra uno scoppio di cambiamento e l’altro, I governi presiedevano sulla diversità etnica e la governavano e nessuno pensava che l’uniformità fosse desiderabile o che l’assimilazione a un comune stile di vita e schema di cultura fosse normale o possibile. (segue)


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