Euro e monete nazionali, the best of both worlds

Creato il 26 agosto 2013 da Keynesblog @keynesblog

Sebbene la crisi dei debiti sovrani nell’area euro non occupi più le prime pagine dei giornali grazie al “whatever it takes” di Mario Draghi, il dibattito economico sulla sostenibilità della moneta unica nel medio-lungo periodo per fortuna continua.

Il problema centrale di questa discussione, tuttavia, è l’estrema incertezza sui concreti effetti che una deflagrazione della zona euro potrebbe produrre. Studi in una direzione e nell’altra si accavallano e contraddicono a vicenda. Sugli effetti negativi – anzi disastrosi -dell’uscita dall’euro c’è un famoso studio dell’UBS del 2011 che calcola una caduta del PIL del 40-50% per i paesi deboli e del 20-25% per quelli forti. E’ uno studio a dir poco discutibile, ma altrettanto lo sono le tesi di chi sostiene che uscendo dall’euro non succederebbe nulla o quasi. 

Il difetto di questi studi pro o contro è che, sebbene condotti da studiosi di economia internazionale, generalmente trattano l’argomento guardando esclusivamente ai singoli paesi, senza tenere conto o tendendo a porre sullo sfondo, in lontananza, gli effetti continentali e globali.

E’ infatti immaginabile che un crollo “disordinato” dell’euro possa portare a un nuovo credit crunch, come quello seguito al mancato salvataggio di Lehman Brothers. In un quadro in cui nessuna economia oggi è in salute (non l’Europa, non gli USA, non il Giappone e nemmeno più i paesi emergenti) nessuno può davvero azzardarsi a dire quali sarebbero gli effetti di breve e lungo periodo di una nuova crisi e pretendere di essere creduto da popoli e governi. 

In questo quadro di incertezza, inoltre, è sbagliato metodologicamente trarre dal passato delle lezioni definitive in una direzione o nell’altra. Un esperimento come l’euro non ha precedenti e non è perfettamente assimilabile ai sistemi di cambi fissi come Bretton Woods (in cui, fatto fondamentale, ogni debito/credito era denominato in monete nazionali). Anche al netto di queste considerazioni, va detto che il mero ripristino del tasso di cambio, nella situazione attuale in cui tutte le principali banche centrali sono impegnate – esplicitamente o implicitamente – nella svalutazione, potrebbe non sortire gli effetti sperati, non almeno nella misura necessaria a far ripartire le economie in profonda crisi. Se poi a ciò aggiungiamo il probabile credit cruch e l’altrettanto probabile smembramento del mercato unico a seguito della deflagrazione dell’euro, appare davvero azzardato contare sul tasso di cambio e le esportazioni come motore della crescita: anche se i prodotti dei paesi “periferici” dell’eurozona riducessero i prezzi relativamente a quelli dei paesi del “centro”, bisognerebbe pur trovare qualche paese in buona salute a cui venderli. 

Forse, come sosteneva Keynes, è più onesto ammettere che semplicemente “non sappiamo”. Del resto ci pare di cogliere, negli ultimi mesi, un riposizionamento tattico anche dei più accesi sostenitori dell’uscita dell’Italia dall’euro, ora passati alla più logica, e senz’altro meno traumatica, uscita della Germania e dei paesi del “centro”, proposta inizialmente avanzata da George Soros e Joe Stiglitz.

D’altra parte tuttavia la prosecuzione dell’attuale assetto istituzionale dell’area euro appare chiaramente insostenibile, mentre non vi è quasi alcuna speranza che la politica possa riparare il motore in corsa, trasformando l’UE e/o l’eurozona in una unione di trasferimenti o addirittura dare vita agli “Stati Uniti d’Europa”. Spiace che molti non si rendano conto di ciò nel nostro paese e continuino quindi ad invocare la soluzione federale come se fosse realmente praticabile, piuttosto che far pesare l’unico “vantaggio” dell’Italia, quello di essere un paese “too big to fail”, se non altro per ottenere un sostanziale alleggerimento dell’austerità. 

Per questo motivo siamo abbastanza convinti che una soluzione ragionevole che può minimizzare i rischi e in prospettiva evitare il ripetersi di crisi come quella attuale è la trasformazione dell’euro in una “moneta comune” piuttosto che una “moneta unica”. Tale proposta, di cui abbiamo già parlato su questo blog, è ispirata all’International Clearing Union di Keynes, ed è stata avanzata da vari economisti come Steeve Keen e Luca Fantacci, e ultimamente rilanciata, in un articolo su Le Monde diplomatique, da Frederic Lordon. Fantacci ha inoltre elaborato una proposta più minimale, un sistema di compensazione Target3 in capo alla BCE, probabilmente meno convincente ed efficace, ma forse politicamente più semplice.

In sostanza si tratta di un sistema di cambi fissi tra monete nazionali (l’euro-lira, l’euro-marco, l’euro-peseta, ecc.), corretto tramite meccanismi di punizione degli eccessivi e sistematici deficit o surplus delle partite correnti, al fine di evitare la crescita dell’indebitamento con l’estero, proprio ciò che ha causato la crisi dei debiti sovrani.

Sia chiaro, anche questo approccio implica dei costi – di magnitudine prevedibilmente molto modesta sia rispetto ad una rottura incontrollata dell’area euro sia rispetto alla sua mancata riforma – e la necessità che ciascuna parte sia pronta a “cedere” qualcosa. Ma è una soluzione che fa tornare protagonisti gli stati nazionali su base paritaria, ridistribuisce l’onere dell’aggiustamento tra creditori e debitori senza riporre un’immeritata fiducia nella capacità del mercato valutario di garantire l’equilibrio commerciale tra le economie, sottrae ai mercati finanziari il potere di “senato permanente” che attualmente detengono e che i paesi “forti” spesso usano a proprio vantaggio, riduce la possibilità di politiche del tipo beggar-thy-neighbour ed evita gli svantaggi, soprattutto per quei paesi più sensibili alle importazioni, conseguenti una politica di svalutazioni continue, mentre contemporaneamente salva il mercato unico e la possibilità di una costruzione politica più solida dell’Unione europea. Infine, non richiede trasferimenti fiscali o unificazioni dei debiti dei singoli stati, superando le principali obiezioni oggi poste alle soluzioni di tipo “federale”.

Se il partito del socialismo europeo e le sinistre ponessero questa proposta al centro della campagna elettorale per le elezioni europee del 2014, probabilmente eviterebbero la crescita dei consensi alle forze anti-europeiste e populiste. Ma, lo diciamo sinceramente, ci sono ben poche speranze che ciò accada, con conseguenze oggi difficilmente valutabili.


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