Chi sa guardare oltre gli arbitrari titoli di apertura degli autorevoli quotidiani, vede che le masse premono intorno al Palazzo d’Inverno, dell’inverno dello scontento europeo che segna la fine di un’epoca, quella nella quale era stata dichiarata la pace tra i paesi appartenenti all’Unione. Durata quasi quanto la vita di un uomo, durante la quale era diventato facile attraversare i confini, farsi mandare un vaglia, usare un pc in un paese estero senza doversi attrezzare di un armamentario di adattatori. Più che le radici cristiane, a unirci erano Molière, Goethe, Montaigne, Copernico, Spinoza, Leibniz, Newton, e Tolstoi e Fellini, e Mozart e la Nona e perché no? Dior e Armani. E magari a dividerci erano quelle che sembravano ridicole guerricciole sulla lunghezza dei porri, sulla curvatura dei cetrioli, sulla grandezza minima dei preservativi, frutto di interessi certo, di una perversa coscienziosità, probabilmente di vessazioni esercitate per quella voluttà di comandare per proibire meglio che per costringere, se pareva cruciale costringere due volte all’anno centinaia di milioni di persone a spostare le lancette o imporre un codice bancario che in Italia è di 27 cifre e a Malta di 31. Mentre non è stata altrettanto scrupolosamente raggiunta un’efficace armonizzazione che chiarisca in quali aeroporti le forbicine della manicure, i cavatappi o le fibbie costituiscano armi letali.
Si sopportavano certe soperchierie, certe indelicate invasioni, certe inutili disposizione, che sembravano poco pericolose, perché remote, ragionevolmente inspiegabili, o attribuibili a normalizzazioni dettate da lobby e influenti bizzarri e estemporanei che traevano indefinibili profitti o misteriose soddisfazioni dalla standardizzazione dei sedili dei bus o da 36 regole per omogeneizzare formato di meloni o cavolfiori. Tutto questo avveniva in perdute distanze cui eravamo moderatamente interessati, in istituzioni polverose e appartate, dei cui “addetti” a Bruxelles, Strasburgo, Lussemburgo, non conoscevamo nome, faccia, funzioni, numero.
E’ in virtù di questa lontananza, che questo coagulo artificiale, la cui coesione è più affine alla Lega Araba che agli Stati Uniti, ci ha progressivamente commissariati, ci ha imposto una moneta che non ha alle spalle un governo né una unità statale, bensì una banca che ha via via assunto il ruolo di governo effettivo, con un potere sostitutivo e surrogato immenso, la cui volontà viene comunicata per essere eseguita, mediante dispacci perentori e ineluttabili, alzando il velo dell’equivoco sul ruolo pleonastico delle sovranità e perfino delle elezioni.
Grazie all’adesione offerta in cambio dell’annessione, da paria peraltro, alle elite tecnico finanziarie delle ex- sinistre, ci impongono di assistere senza darci diritto di parola alla fine della sovranità affidata a parlamenti eletti a suffragio universale. E se i gendarmi delle agenzie di rating sanciscono una pretesa inaffidabilità politica, tanto meglio, motivo di più per metterci sotto tutela, per cancellare popoli e lavoro, dimezzare salari, incrementare disuguaglianze incardinate su quella moneta unica, brandita come un’arma.
Sono le nuove forme della guerra, esercizio cui l’Europa non è nuova: da quella unificazione del mondo nel 1492, fonte di ricchezza e potenza, costata l’estinzione di interi popoli, il propagarsi di virus e malattie insieme allo stravolgimento benefico delle vite degli europei con l’arrivo di cacao, caffè, patate, tabacco.
Civiltà e barbarie si sono intrecciati: incontri di culture e omologazioni, ibridi e meticciati, violenze e sfruttamenti crudeli, creazioni e distruzioni, l’esplodere di intolleranze religiose, conflitti di religione, pulizie etniche si sono consumati in una storia che è quella dei suoi stati nazionali che si oppongono gli uni agli altri fino al parossismo delle due guerre mondiali.
Tutte le nazioni europee, ognuna per suo conto, sono diventate multiculturali. Ma l’Europa non si è data un progetto di civiltà che valorizzi le differenze al suo interno, valorizzando l’antagonismo di paesi forti contro quelli più deboli, imponendo regole punitive – Maastricht prima di tutto – scritte per impedire uscite di sicurezza per gli stati che non reggono alla morsa dell’euro, approfondendo la polarizzazione a tutti i livelli territoriali tra ricchezza e miseria, difendendo l’intangibilità del profitto attaccando i diritti e le garanzie del lavoro.
Edgar Morin paragona l’Europa unita al processo di trasformazione del bruco in libellula. Ma la metamorfosi è incompiuta. Niente incoraggia a sperare che si possa resistere alla barbarie che essa stessa suscita da dentro di sé, se non con la coesione di una comunità di destino, che generi dialoghi e diversità da vivere come fruttuosi di benessere e libertà. In questo inverno, in questa tempesta dobbiamo essere tutti nocchieri, tutti timonieri, tutti responsabili per riprenderci l’utopia concreta dell’essere compagni contro l’unità artificiale dell’essere affiliati.