EUROVISION SONG CONTEST 2014: il trionfo di Conchita Wurst in un'edizione non memorabile

Creato il 12 maggio 2014 da Carloca


Non è stata una delle migliori edizioni dell'Eurovision Song Contest, quella chiusasi sabato notte a Copenaghen. Sollevando il velo del chiassoso glamour, dell'entusiasmo popolare (ma molto costruito, sensazione "a pelle") in stile Mondiali di calcio, della scenografia ultratecnologica e ricca di effettoni, emerge una manifestazione la cui proposta musicale si è assestata su un livello di sostanziale mediocrità. Aurea, se vogliamo, ma pur sempre mediocrità. Sono discorsi triti e ritriti, a proposito del vecchio Eurofestival: il rischio è sempre quello di risultare ripetitivi e magari troppo cattivi, in sede di bilancio, ma a ben vedere questa kermesse, ultracelebrata e costantemente premiata da un'audience oceanica, è ormai cristallizzata su un canovaccio canzonettistico non esaltante che si ripete stancamente da tanto, troppo tempo. Ben più immutabile del tanto criticato Festival di Sanremo, che per noi italiani rappresenta pur sempre un termine di paragone inevitabile. 

UNO SHOW BEN COSTRUITO - Come architettura generale dello spettacolo, certo, l'ESC rimane un modello, per la tv italiana e per lo stesso Sanremone, questo va riconosciuto con assoluta onestà critica. In tutta Europa continua a funzionare perfettamente una manifestazione che propone, nel suo atto conclusivo, la bellezza di ventisei canzoni a tamburo battente, con pochissime intrusioni dei presentatori e con nessun elemento estraneo alla linea editoriale dello show, fatto salvo qualche extra fra la fine delle esibizioni dei concorrenti e l'inizio delle votazioni: in pratica, lo schema sanremese così com'era concepito fino agli anni Ottanta. Funziona ovunque, si diceva, mentre da noi, non si sa perché, la principale gara canora della penisola è stata ridotta ai minimi termini, in fatto di canzoni in concorso, per diluirsi però in ore e ore di inutili dirette televisive, fra tempi dilatati, padroni di casa protagonisti, pubblicità invasiva e ospitate di personaggi che con la musica non c'entrano alcunché. E' così da anni, ogni volta lo sottolineiamo ma la situazione, in casa Rai, non cambia. Speriamo in Carlo Conti, senza farci soverchie illusioni. 

MENO VINTAGE, PIU' APPIATTIMENTO - Il discorso, però, cambia, cambia radicalmente allorquando si deve analizzare la qualità del repertorio musicale proposto dalla manifestazione continentale. Rispetto all'anno passato, a Copenaghen 2014 ho percepito meno "vecchiume" canoro, minori richiami a certi generi che andavano tanto di moda negli Ottanta e nei Novanta ma che, proposti nel terzo millennio, suonano francamente anacronistici. Un pizzico di contemporaneità in più dunque, ma il prezzo pagato a questa "modernizzazione" è stato un ulteriore appiattimento, un'omologazione generalizzata. A svuotare di significato una rassegna come l'ESC è soprattutto il ricorso diffuso alla lingua inglese, da parte di tutti o quasi, laddove invece questa gara dovrebbe avere, fra i suoi doveri, quello di valorizzare ed esaltare le diversità linguistiche e stilistiche. 

INCONSISTENZA - Quanto al livello medio dei brani, come già sottolineato, l'edizione è stata tutt'altro che memorabile.  Le solite rimasticature, le solite atmosfere solenni "Titanic Style" che, non si capisce perché, affascinano tanto il pubblico dell'Eurofestival, ma soprattutto una generalizzata inconsistenza. Ho sempre scritto che la leggerezza fa bene alla canzone pop, rendendola digeribile e dandole quel quid per fissarsi nelle teste e nei cuori di chi ascolta, ma a Copenaghen si è andati oltre: talmente leggeri, certi pezzi, da correre il serio rischio di dissolversi nell'etere nell'arco di pochi giorni, una apparente orecchiabilità che in realtà è totale assenza di peso specifico: una tessitura musicale modesta che, credo, getterà ben presto nel dimenticatoio molte di queste proposte. 

CONCHITA WURST, BUONA MA NON ECCELSA - Nessuno, insomma, ha fatto gridare al miracolo. Nemmeno il vincitore, la drag queen austriaca Conchita Wurst: metto al bando il buonismo e dico che è stata una vittoria più di immagine che di sostanza canora, senza entrare nel merito, ci mancherebbe altro, del percorso personale del ragazzo: è una considerazione meramente tecnica, la mia, e solo di questo si dovrebbe parlare in occasione di un evento come l'ESC. Il suo pezzo, "Rise like a Phoenix", ha toni epici da colonna sonora di film thriller, un buon crescendo emozionale, è esaltato da una voce indubbiamente rimarchevole e senza cedimenti, ma lascia la sensazione di essere, più che altro, un esercizio di stile fine a se stesso, piuttosto convenzionale, un'opera di discreta fattura ma che non si ricorderà facilmente fra qualche annetto. Nulla di trascendentale, insomma, grosso modo, tanto per dire, non molto superiore al brano della sammarinese Valentina Monetta, "Maybe", classico melodico di discreta fattura, ben interpretato (anche con un accenno di recitato) ma non particolarmente brillante. 
                                         Conchita Wurst, il vincitore dell'Esc 2014
ATMOSFERE DEL PASSATO - Fra le prime classificate, la miglior proposta mi è parsa quella del duo olandese The common Linnets, eredi di Mouth and McNeal (ve li ricordate?), una "Calm after storm" essenziale nell'arrangiamento (chitarra in primo piano) e con un buon impasto vocale, anche se palese era il tributo a un classicissimo come "Every Breath you take" dei Police, peraltro una notevole somiglianza e nulla più. Del resto, di cose "orecchiate" in passato ve ne sono sempre tante, troppe, all'Eurovision Song Contest. Del costante tributo alle atmosfere "Titanic" ho già detto, ma certo i padroni di casa danesi hanno esagerato, dato che "Cliche love song" di Basim ricorda francamente troppo da vicino "You to me are everything" dei Real thing, già efficacemente coverizzata da Marina Rei nel lontano 1997 ("Primavera"). A ripescare massicciamente in generi musicali di moda qualche lustro fa sono stati, fra i finalisti, solo l'ucraina Mariya Yaremchuck con Tick Tock, tipico pezzo da Eurofestival, motivetto semplice e accattivante, vagamente stile Spice Girls, e la coppia romena Paula Seling e Ovi con "Miracle", duetto vecchio stampo con ampi richiami alla dance anni Novanta. 

I MENO BANALI - Come sempre, le giurie europee hanno tenuto nelle retrovie le proposte un tantinello più ardite e meno banali nella costruzione: la moderna "Hunter of stars" dello svizzero Sebalter, con tanto di assolo di violino e fischiettata, "Cheesecake" del Bielorusso Teo, ritmata, trascinante, dalla buona tessitura musicale, il bell'ensemble corale dei maltesi Firelight in "Coming home", con audaci e azzeccate spruzzate di country, persino la marcetta un po' folk delle tedesche Elaiza ("Is it right"), con l'azzeccato accompagnamento della fisarmonica. In un contesto non entusiasmante, la migliore proposta è stata forse quella del norvegese Carl Espen, una "Silent storm" minimalista, su un suggestivo tappeto sonoro di violini e piano, un lento intenso e struggente sostenuto da una voce possente ed eclettica. Agli antipodi il divertissement offerto dalla Polonia: "My Slowianie" di Donatan e Cleo è un brano fuori dagli schemi ma non piegato ad alcuna omologazione, in parte fedele alla tradizione locale, ammiccante e pruriginoso quanto la sinuosa e scollacciata "bella lavanderina" che ha accompagnato l'esibizione. Un espediente coreografico di certo furbo ma tutto sommato in linea con la canzone, quindi non gratuito come altre scelte, dall'uomo criceto dell'Ucraina all'improbabile tastiera rotonda dei romeni. 

I GRECI ED EMMA SOTTOSTIMATI - Meritevoli di un piazzamento di rilievo sarebbero stati anche i greci Frealy Fortune feat. RiskyKidd, se non altro perché la loro "Rise up" è parsa la canzone più contemporanea, per l'arrangiamento e per il ricorso (non invasivo) al rap tanto di moda in questi anni. Ma era un buon pezzo "anni Dieci" anche "La mia città" di Emma, la cui sonora bocciatura ha sorpreso un po' tutti. Opera più in linea con gli stilemi eurofestivalieri rispetto alle più sofisticate proposte di Gualazzi, Zilli e Mengoni degli anni precedenti, però non banale, non scontata, non "demodé". E l'esibizione dell'artista, per quanto a tratti sopra le righe, mi era parsa nel complesso convincente, grintosa, trascinante, e il look "da imperatrice" audace ma non volgare. Cosa non ha funzionato? Difficile dirlo: forse il gusto complessivo non raffinatissimo dei votanti, di cui ho già fatto cenno qui e ampiamente discusso negli anni scorsi, e il consueto gioco di alleanze e votazioni incrociate da cui, stranamente, l'Italia è stata messa quasi totalmente fuori, con la magra soddisfazione che i pochi voti racimolati, e utili per il 21esimo posto finale, sono stati tutti frutto di una valutazione meramente artistica. 

MA PERCHE' TWITTER? - La trasmissione tv in Italia, se da una parte si è avvalsa della discreta ed efficace conduzione del collaudato duo Linus - Nicola Savino, dall'altra ha avuto il suo punto debole nell'eccessiva importanza attribuita al sopravvalutatissimo Twitter. Mentre lo spettacolo di Copenaghen avanzava tra alti e bassi, sullo schermo di Rai Due scorrevano tweet inutili: una sconfortante galleria di gente che si crede spiritosa facendo battute che non farebbero ridere nessuno, di altri che si credono arguti ma non sanno cosa sia l'arguzia autentica, per finire con quelli che imploravano di vedersi pubblicato almeno un Tweet (sob!), sorvolando su Fiorello che ci premurava di farci sapere che "ho registrato l'esibizione di Emma, me la vedo dopo". Salvateci da questo social network, per piacere. 


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