È talmente formidabile la potenza dei luoghi comuni, che finiscono per resistere al naturale evolversi degli eventi e al buonsenso. Così è talmente consolidata la convinzione che la stampa possa costituire un pericolo per i regimi, raccontando la verità, mostrando l’imperatore nudo, dando voce al malessere e alla critica, che succede che un governo che gode di un consenso plebiscitario, metta il bavaglio ai giornali che ogni giorno esultano per il suo operato, che magnificano i suoi balli Excelsior, che bruciano l’incenso del servilismo più dedito e appassionato durante le loro liturgie, conferenze stampa, visite ufficiali, convention, che moltiplicano con raggiante puntualità annunci e tweet.
Così da oggi, per non disturbare manovratori, controllori, manovali, i cantieri dell’Expo sono chiusi alla stampa. Anche a quei giornali, cioè, che da mesi celebrano gli intenti della manifestazione e le sue finalità altamente morali e comunque tempestive: si parla di cibo in tempi di fame, che da mesi glorificano la rivoluzione etica impressa ai poderosi lavori grazie a un prestigioso e competente babau, che da mesi suonano la grancassa alla nebulosa vendita dei biglietti, alla presenza mai quantificata di autorevoli presenze straniere, che da mesi si dedicano all’agiografia delle immaginette sacre che popolano la cattedrale dello spreco convertito in opaco profitto per i soliti noti, a cominciare dal norcino dell’imperatore, che da mesi godono anche loro grazie a una massiccia campagna di inserzioni, di advertising, di pubblicità redazionale, ben remunerata o anche spontanea, che sono tanti quelli che hanno ormai introiettato l’uso a piegarsi come i giunchi agli ordini dei padroni, quelli che hanno favori da chiedere, quelli che sperano in regalie, biglietti gratis, strenne di Natale. E che da mesi trasmettono con sconcertante ottimismo l’immagine di un alveare operoso, di un instancabile lavorio, rallentato ahimè dai nemici del fare, dai disfattisti che ostacolano la crescita, dai rosiconi che cercano il pelo nell’uovo del dinamismo, rimuovendo il fatto universalmente noto che agire ha dei costi, che solo chi non fa non sbaglia, che profitti e occupazione chiedono il sacrifico rituale delle regole, delle norme e della giustizia.
Certo anche i più assoggettati non hanno potuto tacere del tutto i numeri vergognosi dell’abnorme aumento dei costi, quelli effetto del regime speciale degli appalti imposto dall’eccezionalità dell’evento: “Ogni gara va gestita come un’emergenza”, si disse nel 2001, il Codice del 2006 è stato modificato nei suoi 273 articoli 564 volte generando più di 6 mila contenziosi al Tar, al Consiglio di Stato, all’Autorità, le indagini vanno a rilento proprio a causa della “straordinarietà” del Luna Park, tra lotte intestine alla Procura, accuse, retroscena opachi . Sicché, tanto per fare un esempio, il bilancio della Cmc incaricata, grazie a un’asta con un ribasso del 42,8%, della fase preliminare, insomma di fare le pulizie di primavera e imbandire la tavola, registra un incremento del 117,9%, da 52 a 127 milioni, molti più dei 96 previsti dalla base d’asta. Anche i meno colpiti da sindromi investigative e patologie dietrologiche hanno dovuto partecipare della denuncia di infiltrazioni di criminalità più o meno tradizionali e già note, la presenza di figuri che hanno popolato cronache e immaginario da Tangentopoli in poi.
Ma ben poche eccezioni si sono sottratte alla fascinazione collettiva delle previsioni accademiche sulle ricadute, da quelle sui costi, a quelle occupazionali, dal destino imperscrutabile delle aree una volta tirata giù la ruota di cibolandia, agli effetti sul Pil, dalle presenze di visitatori ai benefici per il turismo, preventivamente elogiate con l’ineffabile campagna di VeryBello.
È proprio superfluo zittire la stampa, impedire le visite nei cantieri di giornalisti in riga come scolaretti in gita scolastica, se sono festosamente affetti da un’entusiastica adesione alla coazione futuristica del fare: casino, quattrini, ammuina, sollevando polvere, gettandola negli occhi, sparando bugie e bombette puzzolenti, in attesa di quelle di guerre provvidenziali e profittevoli.
Una volta lo chiamavano ottimismo della volontà? Oggi si potrebbe parlare di sindrome di Stoccolma, che ha colpito una informazione ricattata, soffocata grazie al cappio dei finanziamenti all’editoria e alla cravatta avvelenata di editori impuri, intossicata dall’oppio di un pensiero forte che obbliga alla rinuncia a ogni alternativa, compresa la verità.