Certo, ci sta. Ci sta che la musica si mescoli con l’estetica. Come si evince da alcuni giudizi (secondo me anche un po’ di parte), su artisti che magari non hanno grande talento musicale ma compensano con l’appeal. Mi viene in mente il classico “è simpatica…” a parziale risposta su “ma è bella?”. Ci sta, e deve starci: se il rock si fa portavoce del sesso oltre che della droga non si può ignorare nemmeno il fascino delle sue interpreti. Ho sempre sostenuto di essere un tipo di difficile assimilazione delle voci femminili. Ma una di quelle che mi emozionano ogni volta che la ascolto è Janis Joplin.
Questa effimera creatura mezza bionda e mezza rossa, esuberante sul palco quanto indecifrabile per quel suo timbro tra il blues e qualcosa di mai ascoltato prima, codice naturale di progresso, evoluzione, una teoria diventata in breve una formula. Janis, dal piedino all’insù, sguardo azzurro rapito, tremendamente sexy per la stragrande maggioranza dei sessantottini veri, se è vera (ne dubito ma non me ne sono mai convinto del tutto) la teoria della genetica criminale, e dunque anche di quella musicale, lei è l’incarnazione dello stereotipo della sessual-singer. Su questo non ci sono dubbi.
A me ne piacciono più altre, molto più di lei, anzi, direi che Janis non mi ha mai tirato abbastanza, forse per via delle foto successive pubblicate in album cult come Pearl, in cui già tradisce un volto tondo, cicciotto e molto poco sexy.
Certo, quel capezzolo turgido nella foto di testa non passa così inosservato, ma, decisamente, non mi ci sono mai visto a letto assieme, non l’ho mai amata così tanto come invece potrei sognarmela quando la ascolto senza vederla. Ecco, se permettete, andrei a letto più con la sua voce. Ma, come si sa, l’attrazione è qualcosa di irrazionale, c’è chi ama il bello e chi non disdegna il brutto, è questione di perversioni, tutto qui.
Questo preambolo erotico (cosa non molto frequente su queste pagine) ha avuto origine dalla lettura di un post molto retrodatato. Si tratta di una riflessione su un brano (Ball & Chain), eseguito dalla Joplin al Monterey Pop Festival del 1967, e scritto nel 2007 da fangospaziale (Enrico Spedale) sul blog Il Grande Cocomero, ormai fermo al 2009.
Una riflessione originale, sulla chimica tra l’autore e la cantante statunitense, scaturite quasi a prima vista (più che al primo ascolto), lato artistico e lato musicale fusi in un unico nocciolo. Ne è derivata una sequela di commenti durata due mesi in cui qualcuno ha parlato anche di «infantile sensualità in quel tallone che si intravede tra il pantalone a zampa e la ciabattina» al minuto 2’30” circa dell’esibizione. Io ve la butto lì e sarebbe interessante la nascita di una nuova discussione. Il video lo trovate qui. Buona lettura e grazie a Enrico per quel post ormai diventato archeologia del web:
Janis Joplin… Ball & Chain
Il blog è per me un diario da condividere con vecchi e ipotetici amici venturi, un luogo virtuale dove potersi permettere, finalmente, uno sfogo di “morigerata” creatività.
Il Grande CoComero sta svolgendo – e stavolta vi nomino: grazie Gerlando! Grazie Andrea! – una funzione terapeutica: mi sta aiutando a dare un orientamento di senso a tutti quegli accadimenti e a tutte quelle riflessioni interiori che diversamente pietrificherebbero se stesse nel dimenticatoio. A tal riguardo una strana nostalgia mi ha reso bersaglio del desiderio di rispolverare tutta quella discografia che ha condizionato, nel bene e nel male, la mia estetica e dunque la concezione etica della mia vita.
Non saprei dire con certezza se io abbia mai avuto delle vere passioni, ma tra le quelle giovanili Janis Joplin è stata simile ad un’inaspettata cometa infranta sotto il tetto della propria casa: rossa con le lentiggini, minuta, mascella volitiva e lineamenti non certo perfetti, è diventata subito – quando ero appena diciannovenne – una tra le chiavi di volta su cui poter scaricare il peso della mia tarda adolescenza (ahimè non proprio felice). Non è stata l’attrazione erotica a farmi innamorare del suo personaggio, anche se – devo riconoscerlo – possedesse un certo sex appeal (in tal senso, ai tempi, più produttiva fu Edwige Fenech. Quintessenza della femminilità, Edwige non seppe mai quante volte l’amai), bensì la sua vena da vera cantante blues.
Tra le ultime figlie della Beat Generation, al di là di un immaginario ormai sbiadito e demodè ricolmo di tanti “figli dei fiori”, Janis è stata colei che è riuscita a rendermi partecipe di una rivoluzione che si è storicizzata in interiore homine nell’ideale del ’68 e nel ’68 ideale (essendo io nato nel ’70).
Ma al di là di tutto Janis Joplin è ciò che viene indicato quando il blues si fa carne ed ossa, un blues da non intendere certo canonicamente, in relazione ad uno stile musicale dai contorni netti o al colore della pelle da “negro” di piantagione di tabacco, appunto ottimo quando vuoi un blues al dente. No! Janis è molto di più: alcol, sesso, droga e il tentativo di aggredire il mondo avendene un timore folle. Pur essendo capace di cantare lo spirito del Musica del diavolo come nessuna e di stravolgere, come accadde nel 1967 a Monterey, Ball & Chain (di cui ho inserito una registrazione video e a cui è dedicato questo post) uno dei cavalli di battaglia della grande (anche di stazza) “Big Mama” Thornton, Janis urlava il suo desiderio di essere amata implorando con languidi gemiti, inframmezzati con “honey… please… Lord”, l’aiuto di un Dio inesistente. Riascoltandola bene si può anche avere la sensazione che le sue urla graffianti rievochino quelle dei gatti in procinto di attaccare – mentre nel palco si dimena con un fare da donna a metà strada tra una crisi isterica ed il commovente pianto di una bambina sopraffatta da un senso di impotenza.
Dopo quasi mezzo scolo, va riconosciuto che Janis ha comunque vinto, perdendo, consegnandosi anzitempo all’eternità – come spesso accade ai i grandi -, e diventando involontariamente uno dei più significativi agnelli sacrificali di quella generazione che credette e sperò di poter cambiare il mondo.
La storia della sua breve esistenza e l’intensità della sua arte totale – nella quale, come ha sostenuto giustamente Piero Scaruffi, vita e arte si confondono, ed è difficile giudicare l’una senza tener conto dell’altra – sono diventate oggi il simbolo musicale di un pianto rivolto ad un idealismo ucciso dalla realtà.
Janis oggi continua a vivere nella dissoluzione di tutti coloro che gridano il proprio disperato desiderio d’amore, di tutti coloro che, incatenati ad una palla carceraria, anelano ad una speranza disillusa ed affogata nell’oblio di se stessi.
Guardatela… E’ bravissima!.
di fangospaziale (Enrico Spedale)