Un film può essere filosofico senza esserlo per davvero, nel senso che partendo da premesse altre rispetto al messaggio che lo spettatore potrebbe cogliervi, finisce per farsi inconsapevolmente promotore di una riflessione cinematografica, culturale o finanche antropologica indipendente dai suoi contenuti.
È il caso di quest'ultimo lavoro di Stephen Daldry (quello di Billy Elliot e The Reader), la cui chiave di lettura è da ricercarsi forse nei titoli di coda, quando nella semioscurità sudaticcia della sala, i commenti del pubblico si inalberano in una struttura a opinioni corali, dove a un aggettivo specifico ne segue uno di segno opposto, e a una determinata visione delle cose si affianca una congettura ad essa contraria. Proprio in tale ingarbugliata ramificazione di percezioni, capita spesso di imbattersi in un parere curioso, vuoi per la sua banalità, vuoi per la supponente convinzione con cui è pronunciato, ma di sicuro abbastanza affascinante da finire rimasticato tra le ganasce di chi ascolta. Molto forte, incredibilmente vicino è allora divenuta, per quello stesso rigore alchemico che trasmuta, attraverso la peristalsi cerebrale dei giudizi, la merda (filmica) in oro, una pellicola “bella”. Non profonda, interessante, originale, ma soltanto bella. Come se qualcuno, pagando un corrispettivo economico per accedere alla proiezione, fosse messo d'ufficio nelle condizioni di assolvere senza nemmeno vagliare le testimonianze, o viceversa di condannare soltanto per un indiscreto sentito dire. Ho pagato, e quindi ho il diritto economico (leggi potere d'acquisto) di sciorinare tutte le cretinerie che più mi si confanno.
Siamo nel 2012, l'Occidente crasso e opulento crede nelle profezie maya, considera ancora Forrest Gump un capolavoro (di cui Molto forte... ha mutuato lo stesso sceneggiatore, Eric Roth) e spende soldi in neri tempi di crisi per profondersi in encomiabili elogi della spazzatura. Pecunia non olet, si sa. Così come si sa che tutto ciò che è a stelle e strisce, per una qualche imperscrutabile deviazione del senso comune, odora di fresco e pulito nonostante il retrogusto di muffa.
Ma veniamo al pomo della discordia. La versione trentacinque millimetri del romanzo di Jonathan Safran Foer, pubblicato nel 2005, è oscena nel senso etimologico del termine, perché inscena, appunto, tutto ciò che per buona educazione sarebbe opportuno, se non esplicitamente necessario, relegare al dietro le quinte dello spettacolo. E lo fa nel modo più pornografico che ci possa essere, ovvero l'abbuffata sinestetica che, da Baaria a Hugo Cabret, ha ormai fatto da apripista per un sottogenere cinematografico in cui l'esibizione (del meraviglioso come del tragico) coincide con l'espansione delle proprie prerogative estetiche. C'è questo ragazzetto in età prepuberale, Oscar Schell (Thomas Horn) che viene coinvolto dal padre (Tom Hanks) in una bizzarra caccia al tesoro per le vie della città: il genitore dissemina indizi per i parchi pubblici, abbandona tracce invisibili nel legno infradiciato di vecchie altalene, inserisce improvvisate segnaletiche nei posti più reconditi e strani, pur di evidenziare l'esistenza di un ipotetico Sesto Distretto, un quartiere metropolitano affondato nel ventre argilloso dei nuovi complessi residenziali e industriali. Così ogni giorno il ragazzo parte per le sue esplorazioni, monitorando tutte le peculiarità geologiche offerte dalle sporadiche aree verdi della Grande Mela, le curvature urbane, gli intrecci e i viluppi dei piani regolatori che potrebbero nascondere, nei loro immobili ventri di cemento, una moderna Ilion avvoltolata nell'oblio. E alla sera, tornato a casa, vaglia dinnanzi agli occhi attenti del padre le sue scoperte, convinto che lo svelamento dell'enigma è sempre più vicino.
L'ombra lunga dell'undici settembre incombe però sulla altrimenti idilliaca famiglia Schell, e quando il padre muore nel crollo delle torri, Oscar non riesce ad accettarne la dipartita. Scartabellando tra i ricordi del genitore defunto, il giovane s'imbatte in una chiave dimenticata sul fondo di un vaso d'antiquariato: non si sa cosa apra, ma un'unica indicazione, stampigliata a penna sulla busta (il cognome Black), è il fondamentale indizio per un'ulteriore indagine, quella definitiva, che permetterà allo spaurito ragazzo di cogliere il senso di tutto ciò che gli sta capitando. Dev'essere quella la soluzione, che come un fil rouge impercettibile unisce le leggende metropolitane del Sesto Distretto all'attentato di Al-Qaida, la morte del padre alle motivazioni che hanno portato proprio alla sua scomparsa e non a quella di qualcun altro. Ecco che aiutato dall'anziano nonno (Max von Sydow), Oscar rende visita a tutti i Black di New York, sperando che uno di loro gli riveli ciò che quella misteriosa, accattivante chiave è in grado di dischiudere: entra nelle loro case, si sofferma ai capezzali dei malati, porta conforto agli scoraggiati, e soprattutto ne ascolta le frammentarie, sofferenti storie. Da ognuno di loro impara qualcosa, a ognuno lascia qualcosa di sé.
Pur sapendo che la sua ricerca sarà probabilmente inutile, e che forse la chiave non aprirà nulla, il ragazzo vuole credere alle fiabe, ne ha bisogno, come ne ha bisogno l'intera America, che scava in una immaginifica età dell'oro (il giovane protagonista, cappellaccio, zaino in spalla e vettovagliamento da Giovane Marmotta, finisce non a caso per somigliare alla versione MTV di un Tom Sawyer) per ritrovare una ormai compianta innocenza morale. Il cinema statunitense elabora il suo lutto collettivo, pur a distanza di anni dalla tragedia delle Torri Gemelle, ma lo fa seguendo la via più abbordabile e scriteriata, con un'uscita in punta di piedi dal fragore degli aerei (o delle bombe?) per entrare nel mondo favolistico della raffigurazione allegorica. Così, il giovane Oscar cessa di essere un ragazzino spaventato per trasfondersi nell'idea archetipica di un'intera generazione, un surrogato (cinematografico e soprattutto culturale) che fa della sua compiaciuta mitopoiesi l'ultima frontiera della civiltà americana.
Purtroppo quella di Daldry è una cosmogonia urbana tutta di facciata, che parte da un fatto di cronaca, ormai già sedimentato nella storia, per inalberarsi in una disamina chiacchierona e impastata di liquirizia: come sempre, si urla quando si potrebbe sussurrare, si sottolinea ciò che di buona creanza si è in grado di evincere, e si dà corpo immaginifico, plasticamente scenografico, a concetti e suggestioni che qualunque persona dovrebbe soltanto fantasticare. Molto forte... diventa allora, forse senza nemmeno volerlo, uno sbrodolio continuo, un gocciolare caramellosità per boccaloni diabetici, un parlottio adulatorio e lusinghiero, che crea i suoi miti, artificialissimi, lontani anni luce da un humus folcloristico e letterario, per il semplice motivo che l'America di grandi miti non ne ha. Daldry (e tutta la schiera di manieristi à la Méliès) si divide allora tra l'invenzione e il gioco di prestigio, reggendosi in equilibrio instabile tra le intuizioni del primo ambito e le furberie del secondo. Il trucco è evidente, pacchiano, logorroico, e di conseguenza del tutto inaccettabile.
Ormai va di moda essere spielberghiani pressoché su tutto, come se l'imitazione ad libitum del regista di Cincinnati rappresentasse di per sé un pedigree di altissima qualità da sbandierare ad ogni cerimoniale da Oscar, o grazie al quale fare esibizione di una concezione altolocata e al tempo stesso popolare del cinema. L'ha capito Scorsese, che oggi il pubblico è immaturo, vuole sentirsi bambino, essere coccolato e preso per mano, e a quanto pare l'ha capito anche Daldry, che pure con The Hours aveva girato un melodramma abbastanza sofisticato da non cadere nella mediocrità di quasi tutto il recente cinema statunitense. Purtroppo il tentativo di guardare al passato, o di rielaborarlo secondo le direttive concettuali di un modernismo barocco e di tutto comodo, è perso in partenza, in parte perché il classicismo magico, quello di Frank Capra per intenderci, è talmente ben inserito nel suo contesto (un'America veramente ingenua e campagnola) che ogni citazione apparirebbe quantomeno indigesta; e in parte perché qualunque cineasta, nel momento in cui utilizza la scrittura filmica per intavolare un'analisi collettiva sul cinema o la società, in questo caso la società post-undici settembre, non può prescindere dalle più recenti pellicole che hanno già sviscerato e interpretato l'anzidetta tematica. E l'hanno fatto con rabbia, con dolore, con la passione virulenta che l'età adulta sottende. L'America è cresciuta, perché il mondo è cresciuto. Se qualcuno non lo comprende, non resta che ricorrere al vecchio adagio morettiano, mai così urgente come in questo momento di cambiamenti e laceranti ferite: pubblico di merda.
Marco Marchetti