…Pensavo è bello che dove finiscono le mie dita
debba in qualche modo incominciare una chitarra.
(F. De André, Amico fragile)
La memoria di Fabrizio ha diritto oggi a qualcosa di diverso, ne sono più che convinto. Merita più delle agiografie, delle biografie, delle scontate raccolte di canzoni rimasterizzate e reimpacchettate. Merita soprattutto di sfuggire all’aneddotica prêt à porter cui vengono fatalmente adattate le figure dei grandi artisti quando non sono più in grado di confutare o di precisare (Ivano Fossati).
Non c’è bisogno di saperne qualcosa.
Bastano fin da subito il gioco di luci chiare su pareti nere, il chiaroscuro intimistico che ne deriva, caldo di canzoni ovattate in grado di sorgere discrete da più angoli-sorgenti contemporanee, le parole appese ai muri e ai pavimenti o semplicemente proiettate in bianco su un non-qualsiasi nero.
Queste insegne universali abbracciano fin da subito il visitatore, lo guidano lungo in un percorso a U che rende accessibile a chiunque la figura di De André nella sua ricchezza interiore e artistica, nel suo saper perfettamente risuonare di qualsiasi verità scomoda, cantandola, senza che i suoi schiaffi morali al mondo ne colpiscano la faccia, pur irridendola elegantemente.
La mostra equivale ad un viaggio multimediale e insieme interiore nella musica, nelle parole e nella vita di un artista unico e universale, interprete, e in alcuni casi anticipatore, delle trasformazioni della contemporaneità. Megaschermi, installazioni video, postazioni interattive, oggetti, interviste, suggestioni acustiche e visive, fotografie, manoscritti e libri annotati permettono di esplorare le sue tematiche, di ricostruirne discretamente le passioni, le sfumature, le declinazioni …portando anche un visitatore profano come me ad interagire con immagini e suoni, a comporre il proprio percorso emozionale sulla vita e le opere del poeta e cantautore De André.
Io non mi aspettavo nulla, ho scostato una tenda nera e mi sono trovata inconsapevolmente accolta in una sala di schermi ripiena della poetica deandreiana, così come di crema si riempie naturalmente un bigné.
Il benvenuto è rappresentato da due pannelli con due frasi dell’artista che ti spingono giù dallo scivolo dell’indifferenza verso un calore mentale che vale la pena di scoprire fino in fondo.
Ti giri e focalizzi nel buio sei schermi trasparenti prospetticamente allineati che raccontano ognuno altrettanti temi: amore-guerra-Genova-libertà-morte-gli ultimi. Gli schermi si accendono ad intermittenza, si completano l’un l’altro compenetrando temi mai del tutto separati, ma sempre intrecciati pur nel loro dispiegarsi singolare. Proiettano la voce, i manoscritti di alcune canzoni, filmati d’attualità, fotografie e videointerviste. Proiettano il tutto anche sul pavimento, avvolgendo il visitatore in una dimensione che è quella di un uomo umanissimo con molto da dire sul suo mondo, al suo mondo, al nostro mondo.
Sullo sfondo, si intravede non casualmente un foto-pannello che lo ritrae: semplicemente lui, De André, sul letto con occhiali acuti, libri ovunque, giornale in mano, chitarra a fianco.
Dopo il forte impatto emotivo – che sapientemente non ottunde fin da subito con mille dettagli cronologici, ma lascia spazio ad una rielaborazione personalissima di un autore da non etichettare passivamente tra i tanti – si svolta a destra e si cambia genere: nella Sala della Musica un percorso interattivo costruito sui cosiddetti “tavoli dei dischi” racconta la produzione discografica di De André; sono tre tavoli multimediali, ma, in linea con la complessità del trattato, sono anche tavoli di quelli ruvidi, di un legno casalingo come accessibile a tutti. A fianco di ognuno, una serie di pannelli riproducono le copertine dei principali dischi dell‘autore; basta
Lì le ore scorrono, magari intanto va via la luce perché Palermo si sta velocemente allagando sotto temporali tropicali, ma è impossibile non proseguire, ormai non c’è più distinzione tra colti e profani, restiamo lì, al buio, alla faccia dei vari mojitognegnédadiscopub, felicemente sequestrati da una città che finalmente sa offrirci anche questo.
Torna la luce ed entriamo nella Sala della Vita, dentro una dettagliata cronologia affiancata dalle foto di un Fabrizio-Bambino e di un De André maturo, e ancora da nuovi “sguardi d’autore” in stampe fotografiche pop del novello artista-guerriero con corazza, fiori, animali libere e pacifici, chitarra al posto di spade e scudi; lui che la chitarra se la portava anche in bagno.
Così, in un momento in cui la biografia non è più fatta di dati pesanti sganciati da un’arte ancora lontana, capiamo finalmente da dove provengono certi temi, certe canzoni, certe ispirazioni. Capiamo l’uomo che c’è in lui, nei testi, nelle schitarrate, nelle ribellioni, nei bicchieri e nelle sigarette di una vita. Leggiamo i suoi appunti, le parole della madre, ascoltiamo quelle di amici e artisti e collaboratori come Fernanda Pivano, Dori Ghezzi, Paolo Villaggio, Nicola Piovani.
Il coinvolgimento del visitatore è ulteriormente sollecitato da due lavagne touch-screen su cui possibile scegliere il proprio personaggio preferito e creare un tarocco personalizzato, che verrà poi proiettato in loop su una parete dell’ambiente.
Accanto, discreta, l’unica stanza senza tenda all‘ingresso: una bianca Sala del Piano, la sola che quasi brilla di luce propria riflessa dalle candide pareti, oserei dire campeggiata dalla protagonista indiscussa della vita di Fabrizio De André: la musica; una musica qui silente, ma concretamente rappresentata dal suo pianoforte, antico, delicato, possente al centro della piccola sala, e da pannelli trasparenti appesi alle pareti su cui spiccano in nero i suoi appunti e scorci di canzoni che scorrono non sempre fluide sulla vita metaforica di un uomo che canta degli uomini.
Quasi all’uscita, troviamo l’ultima chicca della mostra: un video-documentario di oltre cinque ore che scorre senza soluzione di continuità proiettando una serie di contributi video della Rai: apparizioni televisive, interviste, concerti, raccolti in un corposo affresco da Vincenzo Mollica.
Purtroppo il tempo passa e il Kals’Art vuole chiudere, la malinconia è quella di non aver spulciato tutto, di non aver finito di scoprire quest’uomo dalle mille sfumature, di cui tre ore prima conoscevo a mala pena “la chiamavano bocca di rosa, metteva l’amore sopra ogni cosa” e “ah che bell’o café”.
Grazie ad una non semplice mostra ho scoperto un personaggio riservato, un musicista colto, abile nel condensare nelle proprie opere varie tendenze ed ispirazioni, un uomo sensibile, un poeta inconfondibile e alla portata di tutti. Un artista che nel corso della sua carriera ha spesso sfidato il perbenismo e le “buone maniere” di quella stessa classe borghese cui apparteneva, preferendole gli ultimi, gli emarginati, le “Anime Salve” che salvano il mondo. Ma anche un uomo timido, costretto ad affrontare le sue paure da palcoscenico, paure che supererà solo con gli anni, suonando e cantando nella penombra e con molto whisky in corpo.
Per me, quindi, al di là della sterile agiografia, è assolutamente vero quanto afferma Vincenzo Mollica: questa mostra “invita il visitatore a scegliere quale immagine di Faber sviluppare per sé, in relazione con il proprio vissuto, a personalizzare il proprio percorso, non suddiviso rigidamente per aree tematiche e cronologiche, ma organizzato in modo da rendere il racconto e la rappresentazione visiva, testuale e musicale, densi di suggestioni ed emozioni.”
E questo è il mio ringraziamento a Fabrizio De André per l’enorme contributo dato alla coscienza italiana.
De André non è stato mai di moda. E infatti la moda, effimera per definizione, passa.
Le canzoni di Fabrizio restano (Nicola Piovani).
Mi pare che sempre di più sarebbe necessario che invece di dire che Fabrizio è il Bob Dylan italiano, si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio americano (Fernanda Pivano).
Fabrizio De André è uno chansonnier, e lo è nel senso più vero:
il senso in cui la poesia, il testo letterario e la musica convivono necessariamente (Mario Luzi).
Potevo chiedere come si chiama il vostro cane
Il mio è un po’ di tempo che si chiama Libero. […]
E mai che mi sia venuto in mente,
di essere più ubriaco di voi
di essere molto più ubriaco di voi.
(F. De André, Amico fragile)
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