Al casino mi ha portato il mio cugino grande, il Loris.
Che io, per me, ci sarei anche andato prima, ma era che lui ci teneva troppo a questa cosa. C’aveva portato già suo fratello.
Ma ora toccava a me, diobono, sedici anni finiti e tanta voglia di veder della passera.
Che io, per me, avevo già visto quella della Barbarina, se vale dal buco della gabina al mare. Che lei lo sapeva che quando si cambiava il costume c’era la fila di noi a spintonarsi lì fuori, ma non s’affrettava mica, anzi pareva che lo faceva apposta.
Che poi ce lo dissi pure, Barbarina tanto te l’ho vista, non è che me la fai anche toccare. Vamolà e uno spintone, ma secondo me, prima o poi…
Pedala il Loris, che io devo mantenere le forze, dice, e quindi sto dietro, in piedi sul portapacchi, faccio il signore. Il posto sta sullo stradone lungo che porta a Riosparuto, per quello lo sanno pure i cinnazzi di sei anni, fa un caldo boia e meno male che non fatico.
L’ho capito adesso cos’aveva da ridacchiare mio papà, a pranzo, con tutto che era strano che di sabato il Loris fosse a mangiare da noi. Mia mamma stava zitta, invece, ma per sapere sapeva anche lei, e mi ha sbucciato pure una mela, senza che le chiedevo nulla.
Prendo il vento in faccia, fischio alle ragazze e canto. Faccio lo sborone, ma in realtà mi sto cagando sotto, mica per nulla. Che per me il Loris l’ha capito, ma che devo fare? Se c’è una via per farla finita di bastonare il cieco è questa.
Quando s’arriva ho le gambe molli, nemmeno avessi pedalato io e venissi dalla riviera.
Trecentoventisei, trecentoventisette, trecentoventotto…
Il Loris mi fa accomodare in una specie di salottino dove c’è già un signore coi baffi, anzi, sarebbe meglio dire ci son due baffi con un signore, visto che i mustacchi hanno l’aspetto e la dimensione di code di martora ed è la prima cosa che si nota.
Che c’abbiamo, un’entratura? Chiede una tipa tracagnotta e mezza ignuda che pregavo il cielo non era la mia, ecco.
Sì, fa il Loris, c’è il mio cuginetto che da oggi entra nel giro.
Poi confabulano un po’ e il Loris s’infratta dietro una tenda, un corridoio e chissà cos’altro.
‘Spetta mo’ qua, e io fermo.
Immobile come la statua biancobarbuta di Garibaldi in piazza, accanto al mustacchione che nel frattempo s’è messo a leggere, che per me faceva finta e voleva solo sembrare che stava lì per caso.
Se mi concentravo potevo sentire le cicale fuori dalla finestra che s’accordavano al tapùm tapùm del mio cuore.
Una mora, alta un paio di metri, viene a pigliarsi l’altro, e come le va lesto dietro, il baffone.
Ora non ci sono che io ed è come se una morsa mi agguanta le budella. Vorrei scappare e scapperei se solo posso evitare che lo sanno tutti in paese. E allora resto, con queste gambe burrose e un affarino tra le gambe così rattrappito che nemmeno quando si fa il bagno nell’acqua gelata della pescaia.
Bionda, è l’unica cosa che riesco a pensare, vorrei proprio che appare una bionda, non m’importa se tinta, che io mica lo so. E poi è uguale.
Dopo uso il trucchetto, quello mio per rilassarmi quando c’ho troppa strizza: inizio a contare. Da uno in su, fin dove arrivo prima che succeda la cosa, la cosa che son lì per quella. E conto, niente di specifico, metto solo in fila dei numeri, uno via l’altro e andare oltre il cento, verso il mille.
E al cinquecentosettantuno una mano rosso smaltata scosta la tenda.
-----------------------------------------------
Il testo partecipa all'EDS Attesa come anche :
God save the Queen - by Melusina (Poco mossi gli altri mari)