Il 13 Novembre, sul Fatto Quotidiano, fulgido esempio di giornalismo da “palle di acciaio” appare un articolo corredato da video interviste, ai “falchetti”, giovanissimi militanti del Pdl.
Le interviste che possono suscitare, a scelta del fruitore, un sorriso di compassione, sgomento, approvazione, o che so io. Dal Fatto, non ci si aspetta il panegirico del berlusconiano, rientra nell’ovvio: è un giornale schierato e non ne fa mistero.
Ciò che lascia sgomenti, però, è la costruzione atta a screditare un’università, la LUISS, ed un ceto sociale, i ricchi.
Una delle poche cose che una società non può tollerare, perché davvero pericoloso, è il pressappochismo da parte di chi svolge una professione importante come quella del giornalista. Un giornalista ha il compito di formare e informare l’opinione pubblica.
Un ruolo così delicato non può essere svolto con cotanta superficialità: credo esista un qualcosa che si chiama deontologia, che dovrebbe impedire di poggiare le dita sulla tastiera solo per soddisfare l’appetito del lettore, scatenare la propria tifoseria, come si fosse capi ultras. Quell’articolo, superficiale, ideologicamente viziato e falso (come tanti altri), sarà letto e commentato da migliaia di persone, e, magari, influenzerà, se pure non da solo, una parte di loro.
Perché poi è facile prendersela con la politica, gli inciuci di palazzo, “sono tutti ladri”, “in questo paese non cambia mai niente”; ma determinati mali hanno radici ben più profonde e complesse, e “complici” decisamente meno esposti ai riflettori. Il cortocircuito politica – giornalismo – opinione pubblica, ad esempio: è comodo avere un capro espiatorio (Pennac ha inventato un personaggio che lo fa di mestiere, per dire), ma è pure fin troppo semplicistico; e se, a.d. 2013, il dibattito pubblico in Italia è di un livello generalmente molto basso, il giornalismo non è affatto esente da responsabilità.
“Non siamo tutti falchetti”.