Falcone

Da Matteobortolotti @bortolotti

Oggi è una giornata particolare, un anniversario che ricordiamo, che mettiamo sulle bandiere e che nonostante tutto non basta a imprimersi nelle coscienze degli italiani.
Nei cuori di chi ogni giorno permette alla mafiosità e alla paura di farsi spazio sul palcoscenico delle nostre vite, calpestando i piedi a mattatori come il coraggio, l’amore per la giustizia, la forza del dubbio e la fede nello Stato.
Questo è un brano del mio nuovo romanzo, che parla proprio di loro. Non li ringrazio per il loro sacrificio, li vendico ogni giorno dicendo NO ai loro assassini.
NO. 

«Che sta pensando, dottore?» Notarangelo porge il caffè ad Andrea e si

mette a sedere accanto a Mara De Simone, che sta rimescolando il suo. «È

pensieroso».

«E come dovrei essere, Gianni? Di certo non sono felice che uno come Lo

Iacono abbia vinto le elezioni… Sappiamo da dove arrivano quei voti».

«De Gregorio non è andato così male».

Andrea alza le spalle e fa una smorfia che assomiglia a un sorriso consolatorio.

«Mia moglie ha lavorato molto per la campagna elettorale di De Gregorio,

sono sicuro che non è stato un lavoro inutile… Quei voti cresceranno nel

tempo… Solo che io non li vedrò crescere».

Il magistrato indica ai due poliziotti un foglio sulla sua scrivania. Notarangelo

e De Simone si sporgono per guardare e hanno reazioni opposte. Mara

rimane di sasso e si chiude nella sua apatia. Gianni invece no, lui s’incazza e

lo fa vedere accigliandosi e gonfiando le guance sotto i baffi sottili.

«Una richiesta di trasferimento?», chiede Mara, intrappolata in una domanda

retorica. «Ma… e la motivazione?»

«Personale», risponde lui sottintendendo molte cose. Discussioni con Anna

sul figlio che stava per nascere e sulle opportunità che avrebbe avuto in un

posto come Castello. «Volevo dirvelo di persona, prima di consegnarla. Volevo

ringraziarvi».

Mara afferra la lettera e la rilegge mentre Andrea la ringrazia per tutto quello

che ha fatto in questi anni. «Veramente sono io a doverla ringraziare per la

fiducia che mi ha dato».

«Gianni, senza di te non avrei neanche capito come si apriva la porta del

mio ufficio».

Notarangelo si è alzato in piedi e ora fa qualche passo nervoso vicino alla

porta, ne afferra la maniglia senza guardare Andrea e sbotta duramente contro

il suo superiore. «Lasci perdere i ringraziamenti. Quelli si fanno alla fine, e

qui non abbiamo finito un bel niente. C’è ancora molto lavoro da fare, anche

se lei lascia… Con permesso».

L’ispettore apre la porta e fa per andarsene, quando tutti e tre notano il caos

che c’è di fuori, nel corridoio. Tutto il personale della Procura sta correndo in

maniera disordinata verso il bar.

«Ma che succede?», Andrea raggiunge Notarangelo alla porta e viene sfiorato

da una collega che gli risponde sconvolta.

«Hanno ammazzato Falcone. Una bomba. Hanno fatto saltare lui e la sua

scorta».

Questa volta è Andrea a rimanere attonito, e gli sembra di avere entrambe

le reazioni che ha visto prima nei due poliziotti. È scioccato come Mara e

incazzato come Notarangelo. È come se dentro di lui si fosse concluso un

giro intero delle lancette di un orologio meccanico che fa tic tac nella sua testa

da tanti anni. I tic sono le paure per la sua incolumità e i tac sono i sorrisi e le

pacche sulle spalle di tutti quelli che credono nel suo lavoro. L’orologio che

c’è dentro di lui, in quell’istante preciso in cui si ritrova davanti al televisore

del bar, mentre il commentatore fa il lungo elenco delle vittime, compresa la

moglie del giudice, è un orologio rotto che si ferma battendo un ultimo tic.

Senza tac. Non c’è più sorriso attorno a lui. Solo paura e gente che piange.

E si sente l’uomo più solo del mondo in quel preciso istante. E sa che quella

sensazione non la sta provando solo lui, la provano centinaia di colleghi in

tutta Italia, e migliaia poliziotti assegnati alle scorte.

Palumbo è in un angolo del corridoio, si è defilato per non mostrare la sua

commozione.

«Conoscevo uno di quei ragazzi», gli dice con la voce rotta dal pianto trattenuto,

«avevamo fatto il corso insieme».

Non c’è altro da dire, Andrea gli tende la mano, poi finiscono per accennare

un abbraccio e dirsi quanto gli dispiace. Quanto sono addolorati per quel

ragazzo della scorta, per le perdite reciproche. Marco è ancora lì, di fianco

a loro, il suo fantasma segue i passi trascinati di Andrea che chiede di essere

lasciato solo, che cerca un telefono per parlare con sua moglie. Notarangelo

e De Simone lo guardano allontanarsi per nascondere un pianto esilissimo e

denso. Non andrà più via da lì. Non ora, non dopo quello che è successo a

Capaci. Non oggi, 23 maggio 1992, quando la mafia ha fatto saltare in aria

con cinquecento chili di tritolo Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo,

Antonio Montinaro e il giudice Giovanni Falcone.

Andrea non riesce a togliersi dalla testa le immagini dell’autostrada A29

divelta, fumante, e le parole che aveva sentito una volta pronunciare da Falcone

in un’intervista: «Possiamo sempre fare qualcosa: massima che andrebbe

scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto».

Tratto da ‘Il Clan dei Camorristi – il romanzo’ (Fivestore, 2013)