Fallimento del mercato o fallimento dell’interventismo pubblico?

Creato il 28 ottobre 2014 da Peppiniello @peppiniello

La crisi economico-finanziaria che tra il 2007 e il 2008 ha colpito tutto l’occidente industrializzato, è fenomeno così complesso da rendere semplicistico qualsiasi tentativo di spiegarla basandosi solo su alcuni semplici fattori causali. La stessa teoria austriaca, fin qui descritta nella versione datane da von Hayek, ben difficilmente può dirsi spiegazione univoca e completa del fenomeno. Ma tale problematica affligge, a prescindere dalla loro coerenza interna e dal loro potere esplicativo, tutte le teorie che riguardino un fenomeno sociale di queste dimensioni.

Il problema di fondo consiste nel fatto che, per quanto sulla carta si possa mostrare che, dato A segue B, non è possibile effettuare una reale controprova: eliminare, cioè, o modificare il fattore (o i fattori) indicato come causale, e verificare che effettivamente non segua più B; questo privilegio, riservato alle hard science, non è concesso alle scienze sociali, e quindi a quella economica; si possono certamente effettuare comparazioni tra fenomeni storici, che non saranno mai però perfettamente identici; o effettuare simulazioni di tipo econometrico; non però esperimenti paragonabili a quelli che si possono condurre, ad esempio, nella fisica sperimentale; una delle conseguenze è che non si riesce a falsificare (popperianamente parlando) un determinato tipo di ipotesi che quindi, per quanto screditate, possono sempre tornare a ripresentarsi, sotto vesti magari anche leggermente diverse.

Come mette in evidenza von Hayek nella prolusione tenuta in occasione della consegna del premio Nobel per l’economia:

Diversamente dalla posizione che esiste nelle scienze fisiche, nell’economia e in altre discipline che si occupano di fenomeni essenzialmente complessi, gli aspetti degli eventi da spiegare di cui possiamo ottenere dati quantitativi sono necessariamente limitati e possono non includere quelli importanti. Mentre nelle scienze fisiche si assume generalmente, probabilmente a buona ragione, che ogni fattore importante, che determina gli eventi osservati, può essere a sua volta direttamente osservabile e misurabile, nello studio di fenomeni complessi come il mercato, che dipendono dalle azioni di molti individui, difficilmente tutte le circostanze che determineranno il risultato di un processo, per i motivi che spiegherò più avanti, potranno mai essere completamente conosciute o misurabili”1

Senza contare, poi, quanto grande risulta l’influenza di impostazioni etiche di tipo differente nella scelta di un determinato tipo di lettura dei fenomeni economico-sociali; e quanto l’inconciliabilità di questi punti di vista renda difficoltoso il confronto, stante che la lettura di un certo fenomeno è determinata spesso a priori.

Ma lasciando da parte queste considerazioni metodologiche, quello che tenteremo di fare sarà allora di inquadrare, sulla scia dell’impostazione tracciata da Hayek e dai maestri austriaci, il complesso fenomeno di crisi del 2008; ci focalizzeremo innanzitutto sulle conseguenze di un certo tipo di politica monetaria espansionistica portata avanti dalla Fed, come Machlup fa notare: “La tesi fondamentale della teoria del ciclo economico di Hayek è che i fattori monetari costituiscono la causa del ciclo stesso, ma i fenomeni reali lo costituiscono”2 , vale a dire che il ciclo è determinato da fattori monetari, ma tali fattori monetari producono effetti reali sull’economia (il che si ricollega al discorso sulla non-neutralità della moneta che prima abbiamo svolto)

Quando si parla della crisi del 2008 è divenuto quasi un luogo comune descriverla come una crisi del libero mercato o del libero scambio

A sostenere questa linea di pensiero sono in tanti, dal presidente francese Sarkozy, che ha annunciato «la fine del Capitalismo Laissez-faire», all’economista Roubini, sino allo stesso New York Times, che non manca di ricordare come gli Stati Uniti abbiano sempre avuto una mentalità laissez-faire e che negli ultimi 30 anni questo si sia tradotto in una politica di deregulation sempre più spinta.

Un importante economista come Lawrence Summers ha scritto, esprimendosi sull’ultima crisi “il pendolo sta tornando – e deve continuare a tornare- verso un rafforzamento del ruolo del governo al fine di salvare i mercati dai loro eccessi e dalle loro inadeguatezze”3

Come fa notare Pascal Salin “[la crisi] spesso interpretata come conseguenza del comportamento di banchieri avidi e miopi che avrebbero approfittato dell’eccessiva libertà apportata da una deregolamentazione finanziaria senza limiti, finisce per essere considerata la prova d’una instabilità interna del capitalismo e della conseguente necessità di una maggiore regolamentazione statale”4

Tesi non troppo distante da quella sostenuta da Marx a metà dell’800, circa una fatale tendenza del sistema capitalistico alla crisi. Ancor più significativo è il giudizio di Alan Greenspan, capo della Federal Reserve per 18 anni, fino al gennaio del 2006.

Il 23 ottobre 2008, nel corso della sua audizione richiesta da parte d’un comitato della Camera dei Rappresentanti americana incaricato di determinare le cause del crollo della Borsa, Alan Greenspan ha, come scrive il New York Times, “ammesso di aver avuto torto nel fidarsi del mercato per regolare il sistema finanziario senza un controllo supplementare del Governo”. E continua dicendo: “Ho commesso un errore nel fare affidamento sull’interesse privato delle organizzazioni, principalmente del banchieri, per proteggere i loro azionisti. Quanti tra noi facevano affidamento sull’interesse degli istituti di credito per proteggere gli azionisti (io in particolare) sono in stato di shock ed incredulità. Ho trovato una faglia nell’ideologia capitalista. Non so fino a che punto sia significativa o duratura, ma questo mi ha fatto piombare in uno stato di grande smarrimento. La ragione per la quale sono scioccato è che l’ideologia del libero mercato ha funzionato per quarant’anni, ed anche eccezionalmente bene”5

Il problema però, nel sostenere una tesi di questo tipo, è che parlare di “libero mercato” in una situazione come quella pre-2008 è una forzatura; come scrive K. Dowd, professore di Financial Risk Management alla Nottingham Business School “l’argomento è privo di senso, perché non abbiamo un libero mercato. Piuttosto, i mercati operano all’interno di un contesto di intenso intervento statale; la nostra priorità deve essere d’investigare le condizioni e i parametri entro cui i mercati sono lasciati “liberi” di operare”6.

La tesi che sosterremo è, quindi, che la crisi non è il prodotto d’un fallimento del capitalismo o del libero mercato; ma, coerentemente a quanto esposto nel capitolo teorico sul ciclo economico austriaco, individueremo la causa principale nella politica monetaria condotta dalla Federal Reserve; sotto Alan Greenspan prima, ed ora Ben Bernanke, la Fed ha posto in essere un tipo di politica monetaria tale da favorire in modo massiccio l’azzardo morale tra gli investitori, in modo particolare nel settore immobiliare e nel settore dei prodotti finanziari.

Quello che Gary Gorton ha chiamato “il panico del 2007” è il risultato dell’agire da un lato della politica monetaria, dall’altro degli sforzi delle autorità statali di garantire l’accesso alla casa di proprietà per un numero il più elevato possibile di soggetti; tale impostazione ha favorito la crescita dei cosiddetti mutui sub-prime (n.a. anche se in realtà, al di là di mutui prime o subprime, sono stati i mutui a tasso variabile, quindi quelli che maggiormente risentono del livello dei federal funds rate, a subire il tracollo maggiore al momento dell’esplosione della bolla), ed il fiorire di un’impressionante mole di prodotti finanziari derivati al fine di sostenere tali prestiti.

Sempre secondo Gorton (2008), al fine di sostenere economicamente i mutui subprime, il sistema finanziario ha sviluppato una complessa serie di prodotti finanziari (interlinked securities, special purpose vehicles and derivatives) connessi ai mutui subprime. Il valore di queste securities risultò essere inusualmente sensibile al valore dei prezzi immobiliari sottostanti.

Quando però la Fed, preoccupata di derive inflazionistiche, decide di correggere la sua politica facendo virare verso l’alto il federal funds rate, che tocca il picco di 5.25% nel giugno 2006; e in contemporanea la crescita del prezzo degli immobili inizia a frenare per poi iniziare a flettere, i nodi vengono al pettine: gli effetti si ripercuotono sui prodotti derivati ed assicurativi, venendo amplificate dalla carenza di informazioni affidabili (complice l’estrema difficoltà nel calcolarlo) circa la valutazione del rischio implicito in tutti questi prodotti.

Procediamo dunque ad illustrare nel dettaglio la storia che, qui su, abbiamo solo abbozzato nelle sue linee di fondo.

1

Von Hayek F, 1974, The Pretence of Knowledge

2 Machlup, F. (1974) “Friedrich von Hayek’s Contributions to Economics.”

3Summers, L. 2008 “The pendulum swings towards regulation” Financial Times

4Salin P, 2011, Ritornare al Capitalismo per evitare le crisi, pg XXXIII

5Salin P, 2011, Ritornare al Capitalismo per evitare le crisi, pg 18

6Dowd K, 2009, Moral Hazard and the financial crisis, pg 141, Cato Journal



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