False flag e petrolio:l’Operazione Ajax

Creato il 07 dicembre 2010 da Pocheparole

Il 19 marzo del 2000, l’allora Segretaria di stato americana Madeleine Albright riconobbe per la prima volta il “coinvolgimento” degli Stati uniti nel colpo di stato che, nell’agosto 1953, aveva fatto cadere il primo ministro iraniano Mohammed Mossadegh. Il rapporto della Cia, divulgato nell’aprile dello stesso anno dal New York Times, rivelò quale fu il ruolo dei servizi segreti di Londra e di Washington in questa vicenda, che capovolse i rapporti di forza in Medioriente.
Anche nel febbario del 2005 l’ex presidente americano, Bill Clinton, ammise, la responsabilità dell’America nel rovesciamento del governo democratico di Dr. Mossadegh. Infatti nel 1953, gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’intelligence israeliana si resero responsabili di un golpe che rimosse il Primo Ministro eletto dal popolo iraniano, reinstallando lo Shah che era fuggito in esilio a Roma.

La chiave di lettura della geografia politica del Medio Oriente nel secondo dopoguerra è senza alcun dubbio il movimento di decolonizzazione. Dopo avere dato anticipazione di sé nel ventennio tra i due conflitti mondiali, la voglia di emancipazione dei paesi sottoposti a regime coloniale esplose, subito dopo la liberazione del mondo dai regimi nazisti, mostrando la propria forza dirompente.
Negli anni ’50 e negli anni ’60, gli Stati Uniti ed il Regno Unito erano preoccupati per la nazionalizzazione della produzione di petrolio da parte dell’Iran e dall’Iraq. George Kennan nel 1948 disse:

“Abbiamo il 50% della ricchezza del mondo ma soltanto il 6,3% della popolazione. In questa situazione, il nostro lavoro reale… deve essere inventare la costruzione di una serie di rapporti che ci permettano di mantenere questa posizione di disparità. Per fare ciò dobbiamo esimerci dai sentimentalismi… dovremmo cessare di pensare ai diritti dell’uomo, all’innalzamento del livello di vita e alla democratizzazione.”

Questo secondo Gli Stati Uniti e l’Europa Occidentale hanno fermamente seguito i consigli di Kennan e devono incolpare soltanto se stessi per la follia attuale in Medioriente e nel Golfo Persico.

Il clima di forte tensione creato dalla guerra di Corea, scoppiata quell’anno, nonché la paura che i paesi del Medio Oriente delusi dalle compagnie americane potessero volgersi verso l’Unione Sovietica rendeva il Dipartimento di Stato ben determinato nella volontà di indurre le major del petrolio a dare soddisfazione alle richieste saudite; e così fu. Il 30 dicembre 1950, dopo un mese di complesse trattative, i rappresentanti dell’Aramco (Arabian American Oil Company che deteneva il monopolio delle ricerche nel regno saudita. La compagnia era un consorzio formato dalle major americane: Standard Oil of California e Texaco, cui si aggiunsero nel 1948 la Standard Oil of New Jersey – poi Exxon-Esso – e la Socony Vacuum – poi Mobil Oil) firmavano con Riyadh un nuovo accordo sulla base del “fifty-fifty“, la nuova formula di spartizione dei profitti che prevedeva la divisione paritaria. Come era immaginabile l’esempio saudita fu presto seguito anche dagli altr i paesi dell’area, primo fra tutti il Kuwait. In breve la regola divenne la spartizione paritaria dei profitti. Insieme all’Arabia Saudita anche l’Iran fu protagonista in quegli anni di una dura battaglia contro le multinazionali del petrolio che affamavano le popolazioni dei paesi mediorientali tenendo per sé stesse ogni profitto e incarnando in ciò una nuova forma di colonialismo.
Dal 1941 il trono persiano era occupato dal giovane Mohammed Reza Pahlavi posto a sedere sulla poltrona imperiale grazie all’aiuto di russi e inglesi, timorosi che il vecchio Reza Pahlavi, padre di Mohammad, che aveva mostrato simpatie per Hitler potesse cadere, con tutto il petrolio iraniano, nella trappola nazista. Non appena salito al trono, il giovane erede si era trovato a gestire una situazione che avrebbe messo in difficoltà anche un consumato politico.
La sua posizione era resa difficile dalle lotte interne guidate dall’ayatollah Kashani, contrario alle interferenze straniere negli affari dell’Iran. Nel paese regnava il forte sentimento di odio per gli inglesi. Questi ultimi erano considerati responsabili di ogni sventura, anche delle carestia e della siccità. Tutta la popolazione aveva poi imparato che la maggior disgrazia era rappresentata dall’Anglo-Iranian Oil Company: la multinazionale del petrolio concessionaria dei permessi di ricerca. Nell’estate del ’49, le insistenze iraniane portarono alla conclusione di un nuovo contratto che prevedeva un forte aumento delle royalty per Tehran e un consistente versamento una tantum. Nonostante questo accordo fosse abbastanza vantaggioso per il paese, il governo in carica, timoroso dell’opposizione parlamentare, ritardò la verifica parlamentare di un anno.
Quando nel giugno 1950 il nuovo accordo venne sottoposto alla commissione petroli quest’ultima ne denunciò la validità chiedendo l’annullamento della concessione e la nazionalizzazione della compagnia petrolifera.

Dopo le dimissioni del primo ministro, lo Shah incaricò della formazione di un nuovo governo il generale Alì Razmara, capo di stato maggiore dell’esercito formatosi in una prestigiosa scuola militare francese. Il nuovo capo di governo fu investito di una grande responsabilità: la situazione era al limite dello strappo e la tensione internazionale data dalla guerra di Corea alimentava le paure di inglesi e americani inducendoli a fare pressione sul governo moderato di Razmara affinchè facesse approvare l’accordo petrolifero siglato nel ’49.
La firma dell’accordo “fifty-fifty” avvenuto nelle stesse settimane in cui Razmara tentava di sottoporre alla commissione petroli il rinnovo proposto dall’Anglo-Iranian cambiava però totalmente la situazione rendendo pressoché impossibile al generale la riuscita di questa impresa. L’opposizione politica era oltretutto particolarmente ostile alla compagnia inglese che venne definita dal presidente della commissione petroli, Mohammed Mossadegh, “la fonte di tutte le disgrazie di questa nazione torturata“. Le tensioni esistenti all’interno del governo iraniano e le pressioni che confluivano su di esso dall’esterno provocarono una netta frattura quando a marzo la richiesta, fatta dal parlamento persiano, di nazionalizzare la compagnia petrolifera venne respinta da Razmara. Quattro giorni dopo, mentre entrava nella grande moschea, il capo del governo venne ucciso da un giovane falegname al quale i terroristi islamici avevano dato la missione sacra di uccidere il “fantoccio dei britannici“. L’assassinio di Razmara gettò i capi dell’Anglo-Iranian nello sconforto, indebolì la posizione dello scià facendo salire le quotazioni dell’opposizione estremista che riuscì a far passare al Majlis una risoluzione in favore della nazionalizzazione, che non venne però attuata immediatamente. Il 28 aprile 1951, il Parlamento nominò Mossadegh primo ministro. Il mandato affidatogli parlava esplicitamente del compito che gli veniva affidato: la nazionalizzazione della compagnia petrolifera.

Sulla settantina e di aspetto fragile, completamente calvo, il prominente naso aquilino e due occhietti piccolissimi, Mohammed Mossadegh avrebbe tenuto la scena nei successivi due anni, superando tutti in astuzia: le compagnie petrolifere straniere, i governi statunitense e britannico, lo Shah, i propri avversari interni. Uomo dalle palesi contraddizioni, cosmopolita, laureato in legge in Francia e in Svizzera, era fieramente nazionalista, sciovinista e ossessivo nella sua avversione per i britannici. Figlio di un alto burocrate e pronipote dello scià della dinastia precedente, Mossadegh era un aristocratico e proprietario terriero. Eppure assunse la veste di riformista, repubblicano, mestatore appellandosi alla mobilitazione delle masse urbane. Fra i primi professori di scienze politiche all’università persiana, aveva parteciapato alla rivoluzione costituzionale del 1906, che rimase la stella polare della sua carriera. Dopo la prima guerra mondiale si recò alla conferenza di Versailles e ordinò un timbro con la dicitura ” Comité de resistance des nations” cercando di patrocinare la causa della Persia contro gli interventi stranieri, della Gran Bretagna in particolare. Non fu ascoltato e tornò in patria convinto che le sue speranze e il suo idealismo fossero stati traditi dalle potenze coloniali.

Il suo stile di vita era modesto ma anche eccentrico; riceveva spesso iraniani e personalità straniere a letto, in pigiama, a causa, si diceva, di frequenti mancamenti; comprensibilmente viveva nel timore di attentati e le sue guardie del corpo erano sempre presenti. Mossadegh diceva qualsiasi cosa gli tornasse utile in una data circostanza, per quanto esagerata o fantasiosa; ma subito dopo era pronto a cambiarla, riformularla o addirittura negarla con una battuta o una risatina.
Ciò che contava era che servisse ai suoi due obiettivi primari: la sua posizione politica e l’espulsione degli stranieri, britannici in testa. Era un maestro nel mescolare teatralità e politica per raggiungere i propri fini. In pubblico scoppiava in lacrime, gemeva; per lui era abituale svenire nel bel mezzo del discorso, come accadde una volta in pieno Majlis (il Parlamento); un deputato, che era anche medico, accorse per tastargli il polso e entre lo auscultava Mossadegh gli strizò un occhio.
I funzionari britannici e americani che dovevano trattare con lui cominciarono a chiamarlo “il vecchio Mossy“. Anthony Eden osservò che “il vecchio Mossy” con il suo pigiama e il letto di ferro, era divenuto “il miglior soggetto per caricaturisti dalla fine della guerra“. Ma anche chi non sopportava i suoi atteggiamenti avrebbe ricordato quanto era stato affascinato dal personaggio. Questa lunga descrizione di uno dei protagonisti della storia iraniana moderna merita lo spazio che occupa e sicuramente aiuta a comprendere l’unicità di questo uomo politico su cui ci soffermeremo con lo scopo di capire quanto la sua azione fu pioniera in Medio Oriente, quanto contribuì ad aprire nuovi orizzonti. Ciò che accadde più tardi in altri paesi della regione dipenderà in buona parte dalla stessa volontà di fare ciò che Mossadegh aveva fatto in Iran e dalla dimostrazione, da lui resa, che era possibile farlo.

Subito dopo la nazionalizzazione della Aioc gli inglesi che non si potevano permettere di perdere la più valida risorsa di petrolio all’estero impegnarono ogni forza e risorsa nel tentativo di risolvere positivamente la controversia. La prima soluzione cui essi pensarono fu quella armata di un’occupazione di Abadan, la zona dove era ubicata la raffineria più importante dell’Iran, quasi a confermare la permanenza, nella classe politica britannica, di una mentalità fortemente imperialista. Era peraltro in base a quest’ultima chiave politica che ragionava anche il Dipartimento di Stato messosi subito in contatto con il Foreign Office per sottolineare l’importanza che il petrolio iraniano rimanesse sotto il controllo occidentale impedendo al mondo arabo di farsi l’idea che forzare la mano sulle compagnie titolari delle concessioni equivalesse a ottenere l’uscita di scena delle stesse. In questa fase, lo scontro tra la volontà di emanciparsi dei popoli arabi e la mentalità ancora colonialista delle potenze occidenali scopriva brutalmente la funzione di strumento neoimperialista svolto dai colossi del petrolio.
La prospettiva di un intervento armato, cui si è accennato, provocò le critiche del Dipartimento di Stato preoccupato che l’abbandono della postazione iraniana da parte della Anglo-Iranian significasse l’ingresso trionfale dei comunisti. Dean Acheson, responsabile a quei tempi della politica estera statunitense, organizzò un incontro privato con l’Ambasciatore britannico a cui invitò anche un suo vecchio amico: Averell Harriman. Quest’ultimo, che poi venne incaricato della mediazione, aveva ricoperto incarichi complessi e delicati quale rappresentante speciale di Roosevelt ai tempi della guerra. Era inoltre stato ambasciatore a Mosca e Londra, ma la missione a Teheran si configurava come qualcosa di assolutamente nuovo anche per un uomo navigato come lui. Harriman partì per la capitale persiana a metà del luglio ’51, accompagnato da un interprete, vista la necessità di Mossadegh di svolgere i colloqui ufficiali sempre in lingua francese, e da Walter Levy, consulente in materia petrolifera.
Gli inglesi che avevano subìto l’idea di affidare la mediazione a Harriman e Levy erano soprattutto preoccupati delle idee di quest’ultimo, considerato un vero oracolo in materia petrolifera all’interno del Dipartimento di Stato. Levy, infatti, non aveva fatto mistero di essere convinto che la posizione dell’Anglo-Iranian fosse degenerata in modo irrimediabile. Egli sosteneva che se i britannici avessero voluto recuperare la precedente posizione di forza avrebbero dovuto “minimizzare” la presenza della compagnia “diluendola” in una nuova compagnia, un consorzio controllato da altre, di cui, naturalmente, alcune americane. Ovviamente gli inglesi rimasero inorriditi all’idea di “imbastardire” la loro compagnia petrolifera di punta, oltretutto favorendo la realizzazione delle sospettate vere intenzioni americane: far entrare le loro major del petrolio in Iran. Le paure inglesi s’intensificarono, poi, quando un giovane e brillante membro del Congresso, il parlamentare John F. Kennedy, figlio dell’ex ambasciatore Usa a Londra, passò da Tehran e disse al diplomatico britannico che se non si fosse trovato un accordo “le aziende americane avrebbero fatto bene a introdursi attraverso la breccia“.
Guidati da uno schema che sicuramente, viste le riproposte mire espansionistiche, non avrebbe trovato riscontro nei pensieri di Mossadegh, la delegazione americana si presentò nella umile dimora del leader persiano per cominciare le trattative. I colloqui con il primo ministro iraniano si svolsero intorno al suo letto dal quale egli non si alzò mai. Dopo settimane, durante le quali il leader persiano si divertì a fare battute, a chiedere compensi inverosimili alle compagnie petrolifere, Harriman e Levy ebbero la certezza che nessuna proposta avrebbe soddisfatto “il vecchio Mossy” al punto da portarlo ad accettare di nuovo che l’Anglo-Iranian rimanesse l’unica concessionaria del petrolio persiano. L’anziano e astuto primo ministro, data la sua opposizione alla politica di asservimento degli inglesi, non si sarebbe accontentato di niente di meno che della fine della presenza britannica in Iran.
Allo scopo di raggiungere questo obiettivo Mossadegh espulse tutto il personale inglese che lavorava per l’Aioc in Iran dando loro solo una settimana di tempo per organizzare la partenza. Pochi giorni dopo, l’ayatollah Kashani decretò una festa nazionale speciale: “il giorno di odio contro lo Stato britannico” che dal momento della nazionalizzazione era colpevole oltretutto, agli occhi dei persiani, di affamare la popolazione con l’embargo posto sul petrolio dei pozzi nazionali che perciò avevano smesso la produzione.
Poche settimane dopo la partenza dei tecnici inglesi, Mossadegh andò negli Usa per parlare con il presidente Truman e per fare appello all’Assemblea dell’Onu. In quell’occasione furono sottoposti al leader persiano nuove proposte di accordo che egli puntualmente rifiutò spingendo il Dipartimento di Stato a credere nella possibilità che la compagnia inglese venisse sostituita da un consorzio formato dalle più importanti compagnie petrolifere del mondo.
Tornato in Iran, Mossadegh espose, ad una folla che lo accolse come un vero trionfatore, i risultati del suo viaggio negli Stati Uniti. Utilizzando per primo in un regime mediorientale la radio come mezzo di comunicazione e propaganda, Mossadegh confermò la sua statura di indiscusso capo politico che non temeva confronto con nessuno, nemmeno con lo Shah, con il quale peraltro non aveva da tempo buoni rapporti.

Il primo ministro infatti non aveva mai nascosto la sua antipatia per il giovane Reza Pahlavi considerato come “il debole figlio di un tirannico impostore di umili origini e in quei mesi più che mai mostrava insofferenza nei confronti della sua inettitudine, della sua incapacità di rendersi utile al suo paese. Nella sua intransigenza Mossadegh sceglieva nel frattempo di non cedere assolutamente a nessuna delle proposte anglo-americane provocando così il tracollo finanziario del paese che da due anni ormai non riusciva più a vendere il petrolio dei suoi pozzi. Galvanizzato dalla sua popolarità nei primi mesi del 1953, il primo ministro fece approvare dal Majilis una legge che aumentava i suoi poteri.

Il controllo sul campo della cosiddetta “operazione Ajax” fu affidato a Kermit Roosevelt, agente della Cia e nipote dell’ex presidente Theodore Roosevelt, mentre il supporto logistico fu dato dal MI 6: il servizio segreto di spionaggio britannico. A metà agosto ’53, dopo essere riusciti a convincere, con un’azione rocambolesca, lo Shah del piano concepito dagli americani per rovesciare Mossadegh, l’”operazione Ajax” prese il via. Fin dall’inizio però sembrò destinata al fallimento. Reza Palhavi che doveva togliere l’incarico a Mossadegh sttraverso la consegna allo stesso di un decreto reale temporeggiò dando spazio al primo ministro di ricevere l’informazione e preparare a propria volta, ma con una più efficace esecuzione, la defenestrazione dello scià che prima si rifugiò a Baghdad e poi a Roma dove alloggiò all’Hotel Excelsior. La vicenda era tuttavia tuttal’altro che conclusa.

Sostenuto dall’ayatolah Kashani, Mossadegh tennè la scena nei successivi due anni, superando tutti in astuzia: le compagnie petrolifere straniere, l’Aioc, i governi statunitense e britannico, lo Shah, i propri avversari interni. Dopo la nazionalizzazione della Aioc, gli inglesi che non si potevano permettere di perdere la più valida risorsa di petrolio all’estero impegnarono ogni forza e risorsa nel tentativo di risolvere positivamente la controversia. La prima soluzione cui essi pensarono fu quella armata di un‘occupazione di Abadan, la zona dove era ubicata la raffineria più importante dell’Iran, quasi a confermare la permanenza, nella classe politica britannica, di una mentalità fortemente imperialista. L’Aioc e il governo britannico reagirono facendo ricorso al Tribunale internazionale dell’Aia e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite e minacciando sanzioni contro gli eventuali acquirenti del greggio iraniano. A questo boicottaggio o embargo aderirono fin dal 5 giugno le compagnie petrolifere statunitensi e il petrolio nazionalizzato non trovò acquirenti. La posizione di Mosaddegh ne risultò indebolita, ma di fronte all’entusiasmo popolare per la nazionalizzazione lo Shah, che pure temeva per le sorti della dinastia, preferì evitare uno scontro diretto. All’inizio del 1952, per coinvolgere gli Stati uniti, il governo britannico propose di sostituire al monopolio dell’Aioc un consorzio petrolifero internazionale; in agosto gli Usa aderirono.

La caduta di Mosaddegh era ormai inevitabile, malgrado l’appoggio della classe religiosa, che sosteneva con la sua forza organizzativa la nazionalizzazione. Il 19 agosto 1953, travolto da un colpo di stato guidato dal generale Zahedi con l’appoggio finanziario e organizzativo degli Usa e della Gb, Mosaddegh veniva arrestato e successivamente condannato a tre anni di isolamento seguiti dagli arresti domiciliari fino alla morte. Ristabilito il potere di Mohammad Reza Palhavi a Tehran, americani e inglesi tornarono a occuparsi del problema principale: il petrolio persiano.
Il colpo di stato spianò la strada alla dittatura dello Shah, che da quel momento in poi divenne un fedele alleato degli Stati Uniti. Quel regime autoritario e fortemente repressivo, alla fine è rovesciato dalla rivoluzione islamica guidata dall’imam Khomeini nel 1979.
Rivelazioni sul colpo di stato contro mossadegh

Nell’aprile del 2000 il New York Times ricevette il rapporto ufficiale del colpo di stato organizzato nel 1953 dalla Cia contro il primo ministro iraniano Mohammed Mossadegh e, il 16 giugno scorso, lo pubblicò sul suo sito web. Dal documento erano stati cancellati i nomi di varie personalità iraniane coinvolte, ma bastava collegarsi a un altro sito per poterli leggere per intero (1). Questo documento avvincente contiene importanti rivelazioni sul modo in cui fu condotta quell’operazione e chiunque si interessi alla politica interna iraniana o alla politica estera statunitense dovrebbe leggerlo. Il colpo di stato avvenne in un periodo di grande fermento per la storia iraniana, nel momento in cui la guerra fredda era al suo culmine.
Mossadegh era allora leader del Fronte nazionale, organizzazione politica fondata nel 1949 che mirava alla nazionalizzazione dell’industria petrolifera, all’epoca sotto controllo britannico, e alla democratizzazione del sistema politico. Due questioni che avevano grande presa sulla popolazione, tanto che il Fronte nazionale era diventato rapidamente l’attore principale sulla scena politica iraniana. Nel 1951, lo Shah Mohammed Reza Pahlavi si vide costretto a nazionalizzare l’industria petrolifera e a nominare Mossadegh primo ministro, mettendosi in aperto conflitto con il governo britannico. La Gran Bretagna reagì organizzando un embargo totale contro il petrolio iraniano e avviando una serie di manovre a lungo termine con l’obiettivo di rovesciare Mossadegh.
Gli Stati uniti decisero inizialmente di restare neutrali e incoraggiarono i britannici ad accettare la nazionalizzazione, cercando, allo stesso tempo, di negoziare un compromesso, e arrivando fino al punto di far desistere Londra, nel settembre 1951, dall’idea di invadere l’Iran.
Sebbene numerosi dirigenti americani ritenessero che l’ostinazione di Mossadegh creasse un clima di instabilità politica che esponeva l’Iran al rischio di “passare dall’altra parte della cortina di ferro” (pagina III del rapporto), l’atteggiamento di neutralità fu mantenuto fino alla scadenza dell’amministrazione di Harry S. Truman nel gennaio 1953. Nel novembre 1952, poco dopo l’elezione alla presidenza degli Stati uniti del generale Dwight D. Eisenhower, alcuni alti responsabili britannici proposero ai loro omologhi americani di organizzare congiuntamente un colpo di stato contro Mossadegh. La risposta fu che l’amministrazione uscente non avrebbe mai intrapreso una tale operazione, ma quella di Eisenhower, che sarebbe entrata in carica a gennaio, avrebbe probabilmente accettato, vista la sua determinazione ad intensificare la guerra fredda.
Il rapporto della Cia racconta in modo chiaro il modo in cui fu preparata l’operazione. Ottenuta l’autorizzazione del presidente Eisenhower nel marzo 1953, gli ufficiali della Cia studiano il modo in cui organizzare il colpo di stato e iniziano a porsi il problema della sostituzione del primo ministro. La loro scelta cade subito su Fazlollah Zahedi, un generale in pensione che aveva già complottato con i britannici.
A maggio, un agente della Cia e un esperto dell’Iran che lavora per il Secret Intelligence Service (Sis) britannico trascorrono due settimane a Nicosia, sull’isola di Cipro, per mettere a punto una prima versione del piano. Questa bozza preparatoria sarà poi rivista da altri responsabili della Cia e del Sis, che ne elaboreranno una versione definitiva a Londra a metà giugno. Il piano finale prevede sei fasi principali. In primo luogo, la sezione iraniana della Cia e la principale rete di spionaggio britannica in Iran, diretta all’epoca dai fratelli Rashidan, dovevano destabilizzare il governo Mossadegh con azioni di propaganda e altre attività politiche clandestine. In seguito, Fazlollah Zahedi avrebbe costituito una rete di ufficiali in grado di compiere il colpo di stato. In terzo luogo, la squadra della Cia doveva “comprare” la collaborazione di un numero sufficiente di parlamentari iraniani per assicurarsi l’ostilità del potere legislativo a Mossadegh. Poi, bisognava ottenere l’appoggio dello Shah sia al colpo di stato che a Zahedi, anche se si era deciso che l’operazione sarebbe stata comunque portata avanti, con o senza l’accordo del monarca.
A questo punto, la Cia doveva tentare di rovesciare Mossadegh in modo “quasi legale” (pagina A3), provocando cioè una crisi politica che avrebbe portato il Parlamento a destituirlo. Secondo il piano, la crisi doveva essere provocata facendo organizzare ai leader religiosi manifestazioni di protesta, che avrebbero persuaso lo Shah ad abbandonare il paese e creato una situazione tale da spingere Mossadegh a dimettersi.
Infine, se il tentativo fosse fallito, la struttura militare messa in piedi da Fazlollah Zahedi si sarebbe impossessata del potere con l’aiuto della Cia. “Con qualunque mezzo” Le prime tre fasi erano in realtà già state avviate prima della messa a punto del “piano di Londra“. Il 4 aprile, la sezione della Cia di Tehran riceve un milione di dollari destinati “a far cadere Mossadegh con qualunque mezzo” (pagina 3). A maggio, scatena, insieme ai fratelli Rashidian, una campagna di propaganda contro Mossadegh e, presumibilmente, organizza altre azioni clandestine contro di lui. Gli sforzi vengono accelerati nel corso delle settimane che precedono il colpo di stato (pagina 92).
La Cia prende contatto con Fazlollah Zahedi in aprile, versandogli 60.000 dollari (e forse anche di più) affinché “trovi nuovi alleati e influenzi personalità di primo piano” (pagina B15). Il resoconto ufficiale nega che siano stati comprati ufficiali iraniani (pagina E22); è tuttavia difficile immaginare in quale altro modo abbia potuto Zahedi spendere questi soldi. La Cia si accorge rapidamente che quest’ultimo “è sprovvisto della necessaria determinazione, dell’energia e di una concreta strategia” e non è quindi in grado di mettere in piedi una struttura militare capace di portare a compimento il colpo di stato. Il compito viene dunque affidato ad un colonnello iraniano che già lavorava per la Cia.
Alla fine di maggio del 1953, la sezione della Cia è autorizzata a investire circa 11.000 dollari a settimana per assicurarsi la cooperazione dei parlamentari. Aumenta sensibilmente l’opposizione a Mossadegh, il quale reagisce invitando i parlamentari che gli sono fedeli a dimettersi, così da far mancare il numero legale e portare allo scioglimento del Parlamento. Per contrastarlo, la Cia cerca allora di convincere alcuni parlamentari a ritirare le dimissioni. All’inizio di agosto, Mossadegh organizza un referendum truccato nel corso del quale gli iraniani si pronunciano in massa a favore dello scioglimento e per nuove elezioni. Questo impedisce ormai alla Cia di portare avanti le sue azioni “quasi legali“, anche se continua a far uso della propaganda per accusare Mossadegh di aver falsificato il referendum.
Il 25 luglio, la Cia inizia un’opera di “pressione” e una lunga serie di “manovre” per persuadere lo Shah ad appoggiare il colpo di stato ed accettare la nomina di Fazlollah Zahedi a primo ministro. Nelle tre settimane successive, quattro inviati incontrano lo Shah quasi ogni giorno per convincerlo a collaborare. Il 12 o il 13 agosto, quest’ultimo, malgrado le reticenze, finisce per accettare e firma i decreti reali (firman) che portano alla destituzione di Mossadegh e alla nomina di Zahedi al suo posto. Ad agire in tal senso l’avrebbe persuaso la regina Soraya (pagina 38).
I punti oscuri del rapporto .Il 13 agosto, la Cia incarica il colonnello Namatollah Nassiri di consegnare i firman a Zahedi e Mossadegh. Ma le lungaggini dei negoziati con lo Shah hanno fatto trapelare il segreto, tanto più che uno degli ufficiali coinvolti svela l’esistenza di un complotto. Mossadegh fa arrestare Nassiri, nella notte tra il 15 e il 16 agosto proprio mentre questo si appresta a consegnare il primo decreto. Poco dopo, altri congiurati subiscono la stessa sorte. Preparata a una simile eventualità, la Cia aveva preparato alcune unità militari favorevoli a Zahedi ad impadronirsi di alcuni punti nevralgici di Tehran e compiere il colpo di stato. Ma gli ufficiali responsabili si eclissano al momento dell’arresto di Nassiri, provocando il fallimento di questo primo tentativo di golpe. Zahedi e altri responsabili del complotto si rifugiano allora in diversi nascondigli predisposti dalla Cia. Lo Shah fugge in esilio, prima a Baghdad, poi a Roma, e Kermit Roosevelt, direttore della sezione locale della Cia, annuncia a Washington che il colpo di stato è fallito. Poco dopo, riceve l’ordine di interrompere l’operazione e rientrare negli Stati uniti.
Ma Kermit Roosevelt e la sua squadra decidono allora di improvvisare un secondo tentativo. Cominciano a distribuire ai media copie dei decreti dello Shah, per mobilitare l’opinione pubblica contro Mossadegh.
I giorni successivi, i due principali agenti iraniani portano avanti, con lo stesso obiettivo, una serie di operazioni “occulte“. Per aizzare gli iraniani credenti contro Mossadegh, proferiscono minacce telefoniche ai capi religiosi e “inscenano un attentato” contro la casa di un ecclesiastico (pagina 37), facendosi passare per membri del potente partito comunista Tudeh. Il 18 agosto, organizzano una serie di manifestazioni i cui partecipanti sostengono di essere membri del Tudeh. Su istigazione di questi due agenti, i manifestanti saccheggiano la sezione di un partito politico, abbattono statue dello Shah e di suo padre e seminano il panico a Tehran. Rendendosi conto di ciò che sta accadendo, il Tudeh invita i suoi iscritti a non uscire di casa (pp. 59, 63 e 64), il che impedisce loro di opporsi ai manifestanti anti-Mossadegh che il giorno seguente invadono le strade.
La mattina del 19 agosto, questi ultimi cominciano a riunirsi nei pressi del bazar di Tehran. Il resoconto della Cia definisce queste manifestazioni “semi-spontanee“, ma aggiunge che “le circostanze favorevoli create dall’azione politica [della Cia] contriburono a farle esplodere” (pagina XII). In effetti, la divulgazione dei decreti dello Shah, le “false” manifestazioni del Tudeh e le altre operazioni “occulte” portate avanti nei giorni precedenti hanno spinto numerosi iraniani ad unirsi a tali manifestazioni. Diversi agenti iraniani della Cia conducono allora i manifestanti nel centro di Tehran e convincono le unità dell’esercito a seguirli, incitando la folla ad attaccare il quartier generale di un partito favorevole a Mossadegh e ad incendiare un cinema e diverse redazioni di giornali (pp. 65, 67 e 70). Le unità militari ostili a Mossadegh cominciano allora ad assumere il controllo di Tehran, impadronendosi delle stazioni radio e di altri punti chiave. Esplodono violenti gli scontri, ma le forze favorevoli al primo ministro sono sconfitte.
Mossadegh si nasconde, ma il giorno dopo si arrende.
Il resoconto della Cia lascia in sospeso due questioni fondamentali.
Innanzitutto, non chiarisce l’origine del tradimento che ha fatto fallire il primo tentativo di golpe, accontentandosi di ridurre il motivo di tale fallimento “alle rivelazioni di uno degli ufficiali dell’esercito iraniano coinvolti” (pagina 39). Inoltre, non spiega in che modo l’azione politica della Cia abbia favorito l’organizzazione delle manifestazioni del 19 agosto, né quanto abbia inciso sul loro inizio. Altri resoconti del colpo di stato basati su interviste a partecipanti di primo piano suggeriscono che la Cia avrebbe fornito indirettamente denaro ai capi religiosi, i quali probabilmente non erano al corrente dell’origine di tali fondi. Ma questa versione non è confermata dal rapporto della Cia. E, visto che la quasi totalità delle persone coinvolte è oggi deceduta e la Cia sostiene di aver distrutto la maggior parte degli archivi riguardanti l’operazione, tali dilemmi sono probabilmente destinati a rimanere insoluti. È anche difficile riuscire a capire chi vi sia all’origine della fuga di notizie che ha permesso la divulgazione di questo rapporto ufficiale e quale sia il vero scopo di questa fuga. Nell’articolo pubblicato il 16 aprile scorso, in cui rendeva nota una parte del rapporto, il New York Times spiegava soltanto che il documento era stato fornito da un “ex ufficiale che ne aveva ancora una copia”.
Casualmente, un mese prima, la segretaria di stato Madeleine Albright aveva ammesso per la prima volta, durante un importante discorso destinato a promuovere il riavvicinamento tra Stati uniti e Iran, il coinvolgimento del governo americano nel colpo di stato e aveva chiesto scusa (3). Molti ritengono che la fuga di notizie sia stata deliberatamente organizzata dal governo o da una persona decisa a sostenere l’iniziativa della Albright. Ammesso che sia vero, è tuttavia difficile credere che il rapporto avrebbe potuto essere divulgato nella sua integralità, anche se una simile eventualità non si può del tutto escludere.

brano tratto da:”La nazionalizzazione del petrolio