Le sardine alla griglia spandevano il loro aroma di oceano e cenere in tutto il quartiere. Dietro le piante di tuia che circondavano il giardino saliva un denso profumo grigio. Gli uomini delle case vicine erano venuti a dare manforte al nonno. Stesi su griglie enormi, i piccoli pesci argentati crocchiavano già al vento di mezzogiorno. Tutti ridevano, parlavano, strappavano bottiglie di vino bianco secco bello ghiacciato, poi finalmente gli uomini si sedevano e dalla cucina uscivano le donne con pile di piatti immacolati. Mia nonna prendeva con destrezza un pesce paffuto, ne annusava il profumo e lo metteva nel piatto insieme a qualche altro. Con i suoi occhioni stupidi mi guardava gentile e diceva: «Prendi piccolo il primo è per te! Acciderba, gli piacciono a questo qui, eh?». E tutti si sbellicavano dalla risate, mi davano pacche sulle spalle, mentre davanti a me approdava quel cibo prodigioso.
Non sentivo più niente. Fissavo l’oggetto del mio desiderio con gli occhi fuori dalle orbite: la pelle grigia e piena di bolle, solcata da lunghe striature nere, non aderiva nemmeno più ai fianchi che ricopriva. Il coltello incideva il dorso dell’animale e separava con premura la carne biancastra, cotta al punto giusto, che si staccava in lamelle ben sode senza opporre la minima resistenza.
Nella carne del pesce alla griglia, dallo sgombro più umile al salmone più raffinato, c’è qualcosa che sfugge alla cultura. È così che gli uomini devono aver preso coscienza per la prima volta della loro umanità, imparando a cuocere il pesce, confrontandosi con quella materia che a contatto con il fuoco rivelava al contempo una purezza e una selvatichezza intrinseche.
Queste immagini così vive, mi hanno riportato indietro nel tempo, a un’estate di quasi tre anni fa, in cui io e mio marito facemmo un piccolo tour dell’Andalucia. Ci fermammo per tre giorni a Malaga e proprio sulla spiaggia, in una giornata calda e soleggiata, dopo un tuffo nel Mediterraneo, pranzammo in un ristorantino che serviva come antipasto un piatto tipico della città, le alici alla brace. La locanda era spartana, c’era un gran via vai di camerieri e avventori, le braci ardevano prepotenti in un angolo del gazebo. Qualche minuto dopo l’ordinazione arrivò il cameriere con il nostro antipasto. Me le ricordo ancora, un piatto bianco in cui erano adagiati cinque piccoli pesci accartocciati e infilati nello stecchino di legno. Erano freschi, profumati e salmastri, impreziositi da granelli di sale grosso, pepe nero, prezzemolo fresco e olio d’oliva. Io e Claudio assaporammo il pesce ridendo spensierati come due bambini.
La ricetta di questo piatto è davvero semplice, è necessario munirsi però di una brace o un piccolo barbecue (ma una semplice piastra o una piccola griglia elettrica non sono certo una cattiva idea!).
800 gr di alici fresche
sale, pepe, olio extra vergine di oliva
Preparazione:
Passate le alici pulite e asciugate in un piatto con un po’ d’olio;
disponetele su una graticola che metterete sul fuoco;
cospargete di sale e pepe;
Dopo qualche minuto rigiratele.
P.S. Servitele ben calde
Se il libro vi ha incuriosito, date un’occhiata alla mia recensione qui.
Stay hungry
Marina