Foto di Andrea Silva
Di LORENZO MARI
Anche in un tempo in cui si è compiutamente e coerentemente postulata la “scomparsa”, anziché la “morte”, del padre pare legittimo, comunque, sostenere un discorso culturale che si svolga in termini di padri e figli e, a quel punto, inevitabilmente, anche in termini di madri e figlie – di fratelli e di sorelle.
Sembra da rivalutare, quindi, in un certo senso, la cornice familiare entro la quale ha luogo – con vantaggi e svantaggi tattici tutti da articolare – un discorso culturale che è di tanto in tanto centrale, di tanto in tanto sommerso, nel dibattito italiano e, nello stesso tempo, sembra necessario affrontare il familismo amorale aggiornando la riflessione di Edward Banfield e ponendola a confronto con una delle eredità più bieche che il berlusconismo ha lasciato nell’immaginario.
Da questa prospettiva, parlare in termini di padri e figli, a fronte della scomparsa del padre – e anche di quella del figlio, precario (intellettuale e non) spesso senza nome e “prossimo subalterno” – non pare affatto sbagliato, né inutile, quanto piuttosto paradossale, residuale e disarmante.
È anche un’opzione tecnicamente “impura”, in quanto, attivandola, ci si può proporre, come fa del resto il manifesto di questo blog, di:
- “dimostrare che la vera cultura non abita nei sordidi territori resi sterili dalla logica del mercato e dalla prostituzione intellettuale”;
- “esercitare la libertà critica nei confronti del reale, impiegando le armi non violente dell’argomentazione”;
- “attraversare indenni l’inferno cremisi di una violenza pseudoculturale che si spande sempre più in superficie annichilendo il cuore e la ragione delle cose”;
e ancora, forse in modo preponderante, di “far emergere l’intellettuale sommerso ma non salvato, che vive nel sottosuolo, che rimugina di delitti e castighi”.
Come si tenterà di dimostrare, in questo e nei successivi interventi, un simile rimuginare è – appunto – paradossale, residuale e disarmante. Necessita, inoltre, di essere adornianamente attraversato perché altrimenti si fa bieco risentimento. Come si suol dire, una posizione senz’arte né parte. (E se la parte può restare ancora evidente, nonostante tutto, l’arte spesso viene meno, nel risentirsi).
Attraversare il paradosso, invece, può essere uno degli esercizi fondamentali che si può prefiggere oggi la critica militante, nell’epoca, questa sì tautologicamente acclarata, della complessità. Viceversa, difendere una posizione senza inserirla nella complessità della sua articolazione, per quanto lo si faccia fortinianamente, può indurre alla costruzione della stessa gelida prigione concettuale che è stata tratto distintivo di buona parte della produzione di Fortini.
È opportuno anche riconoscere la residualità di questo discorso: parlare di padri e figli, o di madri e figlie, non risolve completamente, e nemmeno in parte, l’interpretazione critica dei testi che questi producono, ma certamente mostra come si abbia a che fare con una tendenza discorsiva ancora operante. E se una volta ci si chiedeva quanti figli hanno ucciso il padre per poi diventare eguali, se non peggiori dei padri, ora ci si può chiedere quanti padri non scompaiano, portando con sé, nella scomparsa, i figli. Quanti figli non si adagino, poi, in questa scomparsa, pur lottando, paradossalmente, parossisticamente, per la visibilità. (Visibilità che, in quanto principalmente mediatica, non si oppone affatto, non presuppone una relazione dialettica con i moti di scomparsa.)
E poi disarmarsi. Perché il confronto tra padri e figli non è una guerra, o almeno non è la solita guerra, altrimenti si ricade nel meccanismo tipico dell’Edipo: si combattono i padri fino alla morte, si cerca di ucciderli, ma poi, arrivati alle medesime posizioni di potere, ci si allea e si inizia a considerare – com’è peraltro umanamente giusto, per alcuni versi – i padri e i figli in un’ottica di tradizione che è, però, una prospettiva normalizzata e normalizzante, canonizzata e canonizzante. Spesso però anche paralizzata e paralizzante (una chiusura del discorso totale, anche perché si può effettuare anche da una posizione diametralmente opposta a questa, che elogi la tradizione e il suo edipismo).
L’esposizione disarmata di sé e del mondo – che caratterizza uno dei sensi ultimi dell’intimamente contraddittorio, in termini epistemologici, filosofici e culturali, Io so di Pasolini – rimane oltranza necessaria rispetto al sistema chiuso della tradizione. L’opzione alternativa è il rifugio nella maturità e nella tradizione tout court, certo, oppure, nel peggiore dei casi, direttamente nell’epigonismo, una parola che continua a sembrarmi significativamente sottovalutata, oggi.
Se non è dunque la tradizione, nella sua funzione ossificante, a poter sussumere tutti i discorsi, riducendoli al suo essere, comunemente parlando, tradizione bianca, maschile e borghese, non si potrà parlare, allora, soltanto dei padri e dei figli, ma si dovrà capire anche cosa ne è, ora, delle madri e delle figlie. A proposito di Nuovi poeti italiani 6 – …di nuovo! – si è richiamata una genealogia, altrimenti bruscamente interrotta, come quella che fa capo ad Amelia Rosselli. Da altre voci è stato notare che questo riferimento alla Rosselli può risolversi in un gergo critico trito e ritrito. Senza entrare direttamente nel merito, la questione della critica – pur nei termini di per sé inevitabilmente poveri di una querelle giornalistica – è già tutta presente, è già tutta posta. Chi può essere oggi la madre non-madre della Rosselli? Quale genealogia si rifà a lei? È una genealogia viva o soltanto di carta?
In questa prospettiva, infinitamente complessa, come altrove ho cercato di abbozzare non siamo già al solito discorso. Come si diceva, non siamo neanche più alla solita guerra.
Quanto alle vittime, continuano a esserci: basta guardare al sistema universitario italiano per vedere quali padri combattono contro quali figli, quali generazioni sono completamente desaparecidas, nel passato e nel presente. E il discorso accademico, per quanto residuale, resta consustanziale al dibattito culturale italiano, che già si svolge in altri ambiti, però mantenendo reverenza (e sottomissione) rispetto a uno dei suoi discorsi più potenti. Basti pensare alle “ottomila ore di volo” raccomandate recentemente dal poeta-cum-cattedratico Magrelli ai giovani e inesperti – forse perché non strutturati entro l’accademia? (e come potrebbero esserlo?) – redattori di lit-blog e simili.
Ottomila ore di lavoro, certo, ma non è lavoro pagato (né ri-pagato, né ri-conosciuto) ed è un lavoro che, nel bene e nel male, si trova a doversi muovere in questa contraddizione.
Lo stesso discorso si può accennare nei confronti delle politiche culturali quotidiane che attraversano il paese e che troppo spesso – da una sponda all’altra dell’agone politico propriamente detto – passano attraverso il confronto azzerante tra “padri” e “figli”, nella formula del padrino che presenta al pubblico il suo protetto. La presentazione è un’esposizione già disarmata ma non più disarmante: un mandare carne al macello, per aumentare la fama di questo e di quello, invece che fomentare il dibattito critico, al quale spesso – anche se non sempre – tale meccanismo “pubblico” si sostituisce.
Si potrà dire che gli esempi riportati – dalla polemica su Nuovi poeti italiani 6 in un’intervista, una sola, di Magrelli – siano nicchia, margine, irrilevanza ma ancora dalla nicchia, dal margine e dall’irrilevanza, dove tanti sono sospinti oggi, si può e in un certo senso si deve parlare – puntando dritti al centro delle questioni.
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