di Luciano Salce (Italia, 1975)
con Paolo Villaggio, Liu Bosisio, Gigi Reder, Anna Mazzamauro, Giuseppe Anatrelli
durata: 98 minuti
Fa impressione accorgersi che Fantozzi compie quarant'anni. L'ho scoperto quasi per caso, sfogliando una rivista che di solito non leggo mai. Sembra impossibile, perchè Fantozzi in tutti questi anni è cresciuto con noi, come un vecchio amico (o meglio, come un collega d'ufficio... visto l'argomento), facendoci credere che ci fosse sempre stato. Una di quelle figure familiari, che sembrano non invecchiare mai e che invece, dopo quarant'anni (e dopo una visione casalinga recentissima, l'altra sera) ci fanno inesorabilmente prendere coscienza del tempo che passa.
Sì, perchè devo dire la verità: l'altra sera ho rivisto Fantozzi, e non ho fatto nemmeno una risata. Nemmeno una.
Ciò non vuol dire che il film non mi sia piaciuto, anzi.
Fantozzi è un film 'epocale', nel senso letterale del termine: un film che ha segnato un momento storico, delineando un personaggio che, finchè è stato possibile, ha incarnato un modo di essere e una condizione sociale che oggi non esiste più. Fateci caso, per decenni abbiamo riso e (de)riso una figura che rappresentava quanto di peggio potessimo immaginare e desiderare a livello lavorativo e umano: il travet, l'umile impiegato grigio e sottomesso, esponente-tipo del famigerato 'ceto medio', colui che ha un posto fisso, le ferie pagate, la malattia, la casa di proprietà, la macchina... eppure, visto oggi, nell'epoca della precarietà e dell'incertezza, Fantozzi appare quasi un privilegiato, un modello da seguire.
Per questo non ho riso rivedendolo per la milionesima volta: perchè l'ho guardato con occhi diversi, da adulto, o forse da 'vecchio', rendendomi conto che non è Fantozzi ad essere invecchiato ma, al contrario, siamo noi che in tutti questi anni ci siamo lasciati sfuggire l'occasione per diventare migliori, per costruire un futuro che poteva e doveva essere diverso. Quarant'anni fa ridevamo di Fantozzi per scacciare le nostre paure, nella speranza di esorcizzare quello che mai avremmo voluto che succedesse a noi. Fantozzi era l'emblema dell'italiano-tipo, disposto a tutti i compromessi, pronto ad ingoiare ogni boccone amaro pur di sopravvivere, per restare a galla. E forse non è un caso che il primo Fantozzi esca proprio nel 1975, cioè lo stesso anno di Amici miei (metafora - ben più feroce - del disagio inconsapevole di un paese che si apprestava ad entrare negli infausti anni '80) e appena una anno prima di Pasqualino Settebellezze della Wertmuller, altro personaggio a suo modo mutevole e trasformista, nell'accezione peggiore del termine...
Fantozzi è una maschera tragica del nostro cinema, a vederlo ora trasmette solo grande amarezza. E' allo stesso tempo vittima e carnefice di una società svuotata di ogni barlume di sensibilità e coscienza: ogni suo gesto, ogni sua azione, si rivelano solo tentativi di raggiungere una felicità impossibile, o quantomeno di sentirsi accettato in un mondo dominato dalla vacuità dei rapporti e dal consumismo imperante. E', a suo modo, il simbolo del crollo dell' 'italian dream'.