“No, signora, suo marito è una merdaccia! E’ vero o no?” chiedeva il sadico professor Guidobaldo Maria Riccardelli alla povera signora Pina. Oppure, “Fantozzi quella sera aveva un programma formidabile: mutande, calze, vestaglione di flanella, frittatona di cipolle per cui andava pazzo, Peroni famigliare gelata, tifo scatenato e rutto libero……”. O ancora, “alle dieci e trenta scarse, finita la cena, il maestro Canello che aveva un altro impegno in un altro veglione, barò bassamente annunciando al microfono….”. La lista di battute epocali di cui sono letteralmente colmi i primi due film della saga del ragioniere più sfortunato d’Italia è davvero infinita, e potrebbe essere snocciolata per intero, provocando, a distanza di quarant’anni, ancora una notevole dose di ilarità. Si, perché la nuova comicità che Paolo Villaggio propose con questa fortunatissima maschera nasceva da un’attenta analisi del tipo antropologico medio che imperava in Italia, un omunculo abbietto, opportunista, feroce con i deboli e ossequioso con i potenti, affetto da una profonda miopia che gli impediva di sviluppare una visione lungimirante di quella che era la sua reale condizione. La messa alla berlina della meschinità dilagante, opportunamente trattata e amplificata dall’acutezza della penna di Villaggio, che l’aveva vissuta sulla propria pelle, creava un’inedita forma di umorismo, in cui le varie gag trovavano un accattivante sfondo, quello di una nuova piccola borghesia, priva di cultura, di ideali politici, di qualunque forma di nobile interesse, un microcosmo asfittico, affetto da un irrimediabile desiderio di mediocrità.
Lo sguardo di Villaggio, affiancato nella regia dal mai troppo rivalutato Luciano Salce, era davvero impietoso, e la sua eroica ironia riusciva sistematicamente a innescare una sospensione del tragico, annunciando un tipo di uomo a dir poco decadente, un soggetto ‘che non vuole più volere’, che si lascia trascinare dalla corrente di un pensiero debole che ha definitivamente smesso di porsi in maniera antagonistica rispetto alla realtà, o, quanto meno, a sviluppare una critica minima. Eppure di lì a poco l’Italia avrebbe vissuto gli anni più infuocati della sua recente storia politica, ma il mondo di Fantozzi costituiva il naturale contrappunto, e Salce e Villaggio non mancarono di stigmatizzare impietosamente il contestatore tipo di quel periodo, munendo il ragioniere di sciarpa rossa ed eskimo, ridicolizzando qualsiasi tentativo di sottrarsi alla deriva della più bieca normalizzazione. Insomma, con Fantozzi si era definitivamente persa l’innocenza, e ogni gesto che provava a smarcarsi da questa insuperabile condizione si scontrava con una realtà che non concedeva alcunché. Forse era proprio questo l’unico percorso possibile: cercare di sgombrare gli spazi saturi dell’incombente postmodernità, rivolgendo altrove lo sguardo, rinnovando le categorie della percezione della realtà, e innescando, dunque, nuove azioni e forme di resistenza. D’altronde questo è lo scopo che muove tanta filosofia contemporanea, cioè rielaborare le modalità di sottrazione alla colonizzazione del ‘discorso capitalista’. Molto più quindi di una semplice macchietta, Fantozzi costituisce l’eccellente testimonianza di quella degenerazione antropologica che indusse Pasolini ad abiurare la Trilogia della vita, fino a debordare nel funerario Salò.
I primi due film del ciclo tornano in sala proiettati in 2k, rispettivamente il 26, 27 e 28 Ottobre e il 2, 3 e 4 Novembre 2015. Un occasione da non perdere per tornare a ridere e riflettere.
Luca Biscontini