Quanto al perché, credo si possa dire che il cinema cinese si sta indirizzando sempre più verso la dimensione del crowdpleaser inteso nel senso più facile. Ovvero, vuole far contento il pubblico (com'è giusto) vellicandolo con mezzucci, strizzate d'occhio, banalità. A differenza dei grandi e piccoli film popolari della Hollywood classica, i film cinesi continentali lasciano un'impressione di furbizia, di architettura a effetto, e financo di ovvietà.
Lo mostrano bene i due infelici film delle sere di apertura e chiusura del festival: la gonfia e sovraccarica commedia “Welcome to Shama Town” di Li Weiran e il mediocrissimo “What Women Want” di Chen Daming, remake del film di Mel Gibson, in cui Andy Lau ruba la scena a un'imbalsamata Gong Li con la quale non ha la minima alchimia. Chen Daming dovrebbe andare a lezione da Johnnie To per imparare come si fa una commedia sofisticata.
A un livello superiore, ma sempre poco soddisfacente, “Buddha Mountain” di Li Yu, onesto compitino di emarginazione giovanile e dolore senile (mancanza del padre incontra mancanza del figlio) che non aggiunge nulla a temi già conosciuti, e “Under the Hawthorn Tree” di Zhang Yimou, che ha i suoi meriti (Zhang è un cineasta superiore) ma non sfugge a un sospetto di manierismo e di un calo d'ispirazione rispetto alla sua folgorante filmografia.
Cronaca del grande terremoto di Tangshan del 1976 ma soprattutto di trent'anni di vita di una famiglia separata di superstiti, “Aftershock” segna invece un punto medio-alto nella diseguale filmografia di Feng Xiaogang. Questo regista è una specie di Cecil B. De Mille cinese, meno dotato del grande americano ma non disprezzabile. Il suo carattere più evidente e insieme il suo punto debole è la pomposità; infatti il cinema migliore di Feng si ha quando se ne allontana - non per nulla la sua opera migliore (con a “A World Without Thieves”) è un film relativamente intimista, “If You Are the One” (parlo dell'originale, non del sequel uscito quest'anno, di assoluta e imbarazzante bruttezza). Così in “Aftershock” la parte sull'immediato dopo-terremoto è migliore di quella sul terremoto, e la parte mélo sulla vita dei personaggi in seguito è migliore ancora.
In conclusione, però, l'unico film assolutamente buono della pattuglia cinese è il delizioso “The Piano in a Factory” di Zhang Meng, una commedia sentimentale quasi musical sulla quale mi permetto di rimandare alla mia scheda sulla rivista online Paper Street (www.paperstreet.it/cs/leggi/872-Piano_in_a_factory_-_Meng_Zhang.html).
Se la Cina delude, qual è la miglior nazione del festival? Senza sorpresa, il Giappone. “Confessions” di Nakashima Tetsuya è un raggelante capolavoro: un impietoso esame delle colpa, un “Delitto e castigo” senza sbocchi, molto più cupo - anche visivamente - rispetto allo stile flamboyant cui ci ha abituati il regista. “Wandering Home” di Higashi Yoichi è uno studio sull'alcoolismo di un intellettuale e sulla morte, realistico, psicologicamente credibile, solido nello sviluppo drammatico. Buono anche “The Seaside Motel” di Moriya Kentaro, buffa raccolta di storie interlineate sul tema dell'amore, impreziosito da uno stile vivace e divertito nonché da eccellenti interpretazioni. “The Lady Shogun and Her Men” di Kaneko Fuminori è un intelligente film in costume ambientato in un mondo alternativo: lo scambio di ruoli fra uomini e donne all'interno della classica scenografia da film storico sulla Edo dello shogunato realizza una satira vagamente swiftiana.
L'unico film giapponese privo di interesse della rassegna (devo segnalare che non li ho ancora visti tutti) è la vacua imitazione “Paranormal Activity 2 - Tokyo Night”. Invece, un autentico godimento è l'eccessivo e spiritosissimo “Yakuza Weapon” di Sakaguchi Tak (anche interprete) e Sakaguchi Yudai. Purtroppo il fatto che il festival avesse in programma la bella rassegna dei pink movies (necessariamente a ore tarde) gli ha impedito di programmare a mezzanotte qualche altro piccolo gioiello outré uscito di recente nell'arcipelago, quali il delirante “Horny House of Horror” di Tsugita Jun e “Helldriver” di Nishimura Yoshihiro, il più bel film di zombi degli ultimi anni.
A completare (è appena uscito) la rassegna dei pink ecco “Underwater Love” di Imaoka Shinji. Reclamizzatissimo pink musical (peccato che le coreografie, per usare un termine lusinghiero, siano degne di un serie zeta italiano degli anni settanta), è puro trash delirante, ma proprio per questo è amabile. Del resto, un film pieno di donne nude come può essere veramente cattivo?
E' un piacere rilevare l'alto livello della selezione di Hong Kong. Il maestro Johnnie To con la commedia sentimentale “Don't Go Breaking My Heart”, mirata al pubblico della Cina continentale, ha realizzato un capolavoro scintillante non indegno di Lubitsch. Dentro la formula patinata della commedia sentimentale alla cinese, completa di quell'orgoglio nazionalistico con cui la Cina ostenta sullo schermo la sua nuova ricchezza, To inserisce con ammirevole leggerezza un discorso filosofico sul rapporto fra il progetto e il destino (un suo cavallo di battaglia tematico), sullo scambio (idem), sul segno (lo stupefacente balletto di segnali fra grattacieli!) e in generale sul sentimento e sul rapporto tra i sessi: è questo film il vero “What Women Want”, altro che la bruttura di Chen Daming. Ci vorrebbe una pagina intera per discutere la penetrazione e l'intelligenza celate sotto la sua ingannevole semplicità.
Il bellissimo “The Drunkard” di Freddie Wong allarga il tema dell'alcoolismo a tutto il dolore umano entro una splendida ricostruzione semi-astratta della Hong Kong anni sessanta. “Perfect Wedding” di Barbara Wong (sempre una regista da seguire) è una commedia molto gradevole, con un buon ritmo, un bel dialogo e delle caratterizzazioni spiritose; l'interpretazione di Miriam Yeung è deliziosa, ma tutti gli attori sembrano assai divertiti (e che bello rivedere dopo tanti anni il grande Richard Ng!). Infine, la sorpresa del durissimo, magnifico thriller “Punished” ci riporta ad audacie della Hong Kong di ieri che sembravano scomparse – oltre a regalarci l'ennesima grande interpretazione di Anthony Wong.
Quarto grande del cinema asiatico, la Corea ha offerto uno dei capolavori assoluti del festival: “Night Fishing”, il cortometraggio di Parl Chan-wook e suo fratello Park Chan-kyong “girato con l'iPhone”, che inizia come un videoclip, si trasforma in un incubo irreale, culmina - mentre la nostra comprensione arriva pian piano a coprirne l'estensione - in un'evocazione della vita e della morte attraverso un rituale sciamanico: un breve film di potenza che si vorrebbe definire dreyeriana, per quanto impegnativo sia il termine.
A fronte di questo capolavoro qualsiasi film è un palmo al di sotto, ma bisogna citare la deliziosa commedia erotica “Foxy Festival” di Lee Hae-young (vedi scheda sotto); il duro, teso, vigoroso “The Man from Nowhere” di Lee Jeong-beom; il notevole dramma in costume “The Showdown” Park Hoon-jung, dove l'impianto claustrofobico (due nemici mortali bloccati con una terza persona in una casa isolata) si allarga in ariosi flashback che compongono come un puzzle il senso della storia. E poi c'è “The Unjust”, cronaca di una guerra fra carogne nell'ambito dell'inchiesta su un serial killer, firmato dall'ottimo Ryoo Seung-wan (suo fratello, famosa star coreana, è uno dei due protagonisti - ma è migliore l'altro). In questa storia infernale sul potere investigativo e giudiziario vediamo che la Corea non è tanto lontana dall'Italia di Ciancimino jr. e dei magistrati di Palermo.
Film minori ma non mediocri sono l'intelligente ma non del tutto riuscita commedia nera “Villain & Widow” di Son Jae-gon e il buon thriller fantastico “Haunters” di Kim Min-seok. Unico film che si poteva evitare, la laboriosa commedia “Cyrano Agency” di Kim Hyun-seok.
Passiamo alle altre nazioni. Trascurando l'inutile “Night Market Hero” di Taiwan, andiamo in Thailandia: “Seru” di Pierre Andre è un horror del genere “REC” (mi sembra giusto battezzarlo così, anche se il primo è stato “The Blair Witch Project”). Il problema di questi film è che, fingendo di essere una registrazione, si devono imporre una grammatica molto stretta – e su questo “Seru” fallisce. Essendoci due cinecamere per due gruppi diversi, il problema si sposta da “chi gira?” a “chi monta?” Tuttavia il film scorre fluido, ha un buon sonoro e vi sono un paio di momenti di autentico spavento. Ricorda l'indonesiano “Keramat”, ma meno intellettuale. Invece “Mindfulness and Murder” di Tom Waller ha un'impostazione interessante (delitto e indagine in un monastero buddhista) ma sbanda un po', soffrendo di una sovrabbondanza di flashback che sembrano messi apposta per allungare il brodo.
Una bella sorpresa viene dall'Indonesia col film a episodi di 9 autori diversi “Belkibolang”, sui sentimenti nella metropoli di sera, caratterizzato da un'estrema concentrazione del discorso, poetica e allusiva, servita da una buona fotografia dai colori acidi. Pur un po' diseguale, è assai bello (c'è da vergognarsi al pensiero che il cinema italiano sia ormai del tutto incapace di concepire, non dico realizzare, opere simili). Per la Malesia, il simpaticissimo - anche sul piano personale - Mamat Khalid ci riporta al comico villaggio stregato di Kampung Pisang con “Hantu Kak Limah Balih Rumah” (“Il fantasma della signora Limah torna a casa”). Meno felice di “Zombi Kampung Pisang”, è comunque gradevole e divertente. E la new entry della Mongolia ci dà con “Operation Tatar” di Bataar Bat-Ulzii una gustosa commedia di rapina in banca metropolitana e “tarantiniana” che è una vera scoperta.
Ho lasciato per ultime le Filippine, per un buon motivo: da questo paese viene il terzo capolavoro del festival (ed è una scoperta del Far East Film, ignoto nel mondo dei festival): lo sconvolgente “Wanted: Border” di Ray Defante Gibraltar (vedi scheda sotto). A un livello molto più mainstream, va segnalata l'eccellente commedia “Here Comes the Bride” di Chris Martinez, in cui cinque persone per un mistico incidente si scambiano l'anima fra loro. Anche l'anno scorso una commedia filippina, “Kimmy Dora”, aveva divertito molto, ma soprattutto grazie all'interpretazione della grande attrice comica Eugene Domingo. Quest'anno la commedia di Martinez era gustosa anche di per sé, come ritmi, struttura, dialoghi – e sì, c'era pure Eugene Domingo: infatti, tutti e cinque i personaggi sono gustosi e ben interpretati, ma lei è quella che riesce a dare al proprio una particolare umanità.
Parlando di commedie, bisogna assolutamente nominare la stupenda retrospettiva “Asia Laughs!”, sulla commedia asiatica, che – accompagnata da un capitale volume curato da Roger Garcia – ha offerto ai fortunati spettatori presenti a Udine una serie di gioielli che mai sarebbe stato possibile vedere altrove (per lo più sono assenti anche in DVD). Così, pur con tanti bei film e con tre capolavori nella selezione, credo si possa dire che questa ultra-memorabile rassegna sulla commedia asiatica è stata l'achievement numero uno dell'edizione 2011.
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