Ma andiamo a vedere più da vicino i film del festival (con l'ovvia precisazione che non sono riuscito ancora a vederli tutti). Se i premi del pubblico hanno incoronato la Corea (primo premio a “Silenced” di Hwang Dong-hyeuk, terzo a “The Front Line” di Jang Hun, con in mezzo il cinese continentale “One Mile Above” di Du Jiayi), a mio parere il Giappone si è confermato come la cinematografica asiatica leader sul piano dei risultati artistici.
Il film che più ha divertito il pubblico - e si parla di una distribuzione italiana - è “Thermae Romae” di Takeuchi Hideki (il manga da cui è tratto esce anche nel nostro paese). Intelligente e molto buffo il suo svolgimento stile “Un americano alla corte di re Artù”, con un architetto dell'antica Roma che involontariamente viaggia a più riprese nel tempo e dalle terme romane si ritrova nei bagni pubblici giapponesi senza capirne niente, traendo dagli oggetti che vede conclusioni folli: questo effetto di straniamento degli oggetti di vita quotidiana rare volte è stato realizzato così bene. Tornando indietro, lui adatta le sue scoperte alla vita romana, e qui il film ha una ricchezza e una carica di fantasia memorabili. In seguito lo sviluppo si amplia fino a coinvolgere i destini dell'Impero. I dettagli storici, sebbene deformati, non sono campati in aria (penso all'autenticità della storia di Adriano e Antinoo). C'è persino l'uso del latino autentico (non correttissimo) in alcune parti di dialogo e nelle didascalie di tempo. Deliziosa la score composta di arie d'opera italiane, fra l'altro scelte molto bene, e accompagnate dalla gag ricorrente del cantante (che sulla Marcia Trionfale dell'Aida si riposa seduto di spalle, perché tanto non c'è ruolo solista...)
Il capolavoro del festival però è “River” del grande Hiroki Ryuichi, già noto al pubblico di Udine per “Your Friend”: splendido film drammatico, contemplativo e quasi metafisico, che incrocia la tragedia di Akihabara a Tokyo (dove un pazzo fece una strage) con quella di Fukushima. Aperto da un meraviglioso lunghissimo piano sequenza (molti passanti guardano in macchina: sono riprese “rubate”, come nella Nouvelle Vague), è un'elegia del dolore, dove ritornano con altezza poetica i temi del ricordo che non vuole passare e dell'umanità nella catastrofe.
Accanto a “River”, e al commovente corto di tre minuti “The Future for the Children of Fukushima”, Hiroki presentava altresì il gangster drama “The Egoists”: un film giovanil-poliziesco e un melodramma estremo: la coppia di giovani amanti del film, quando esso si conclude sul registro eroico/mélo, mi ricorda addirittura i film noir di Anthony Mann. Ma il film è anche debitore agli eroi neri di un cinema giapponese che il Far East Film ha già esplorato (Shintoho, Nikkatsu). Hiroki Ryuichi è, ripetiamo, un regista contemplativo. Anche qui, l'azione si distende in momenti di sguardo lento, come meditabondo, sull'immediato. Da segnalare la bellezza assoluta di certe ellissi che chiudono le scene: raramente se ne sono viste di così belle (e nota anche il modo in cui entra alla fine il nero dei titoli, brusco e definitivo, in contrasto stridente con la dimensione trascinata e masochista che è tipica del mélo). Se c'è un elemento di consapevolezza forse eccessiva nell'uso dell'opera lirica (il riferimento esplicito è alla Signora delle camelie e alla Traviata), comunque questo rientra nella logica dell'eccesso che è consentito al melodramma.
Un altro film di singolare bellezza è “Rent-a-Cat” (significa “Gattonoleggio”), scritto e diretto da Ogigami Naoko, che deve molto alla grazia naturale dei gatti ma che, saggiamente, li inserisce nel racconto anziché usarli come attrazioni – l'esatto contrario di quello che avrebbero fatto gli americani. Alla sua base (è la storia di una ragazza solitaria che noleggia i suoi gatti come terapia per le persone tristi) sta il concetto di hole to fill, ritornante con vari astuti adattamenti dal concreto (p.es. il formicaio, il buco delle ciambelle, il buco nei calzini) all'astratto della metafora base (il buco nel cuore). Zeppo di invenzioni gustose... cito solo la vecchia matta, interpretata da un uomo... è dolce e intelligente, lento e quieto. Quel che è più rilevante sul piano del linguaggio è la sua struttura circolare con continui ritorni di episodi e battute di dialogo, che gli dà un'intelaiatura forte e ricca di fascino.
“Sukiyaki” di Maeda Tetsu è il miglior film giapponese sul cibo che io abbia visto dopo l’indimenticabile “Tampopo” di ltami Juzo. Il film, largamente giocato sui flashback, usa i discorsi sul cibo di cinque carcerati affamati come chiave per un’autentica analisi psicologica, e quasi una psicoterapia. E' notevolissimo l'equilibrio fra astrazione e messa in scena realistica, tramite il quale il film riesce a conciliare perfettamente l’ambiente chiuso della cella con quello dei flashback nella sua bella costruzione a tasselli.
Possiamo aggiungere a questa splendida costellazione “The Woodsman and the Rain” di Okita Shuichi (vedi scheda sotto) e la deliziosa commedia “Mitsuko Delivers” di Ishii Yuya, davvero un Kaurismäki in salsa nipponica.
Questi “magnifici sette” rappresentano proprio un ricco bottino più notevoli per il Far East Film. Assai minori, ma non spiacevoli, “Love Strikes!” di One Hitoshi e “Afro Tanaka” di Matsui Daigo, due commedie su quella figura archetipica della cultura giapponese che è il vergine compulsivo: un nerd (antipaticissimo) nel primo caso e un pazzo dalla capigliatura afro nel secondo. Circa quest'ultimo, l'aspetto migliore è la bella interpretazione comica del protagonista Matsuda Shota che pare una specie di Sacha Baron Cohen giovane: realizza una figura grottesca, a partire dal visuale, e fa girare tutto il film intorno a sé. La cosa più divertente è la sua incongrua recitazione stile film di samurai per mimica ed espressione vocale.
Salgono le quotazioni di Hong Kong. Al centro del festival, accanto all'imprescindibile Johnnie To, stava la figura di Pang Ho-cheung. “Love in the Buff” riprende i personaggi del notevole “Love in a Puff” (2010) trasportandoli con abilità e competenza a Pechino. Siamo sempre nel campo della commedia sentimentale che è il trend di base del cinema cinese continentale, condito di orgoglio nazionale del tipo “guardate-come-siamo-diventati-ricchi”. Ma val la pena notare che questo tipo di “commedia danarosa” funziona specialmente quando a dirigerla sono registi hongkonghesi in trasferta (Pang, Johnnie To, Tsui Hark, Barbara Wong), mentre i registi cinesi anche importanti deludono (Chen Daming, Teng Huatao; meglio Eva Jin; mentre Feng Xiaogang alterna riuscite a fallimenti com'è suo solito).
Ancora migliore un piccolo film a basso budget che sempre Pang Ho-cheung presentava quest'anno, lo strepitoso “Vulgaria”. Comico omaggio al cinema hongkonghese di serie Z, attraverso il suo personaggio di produttore poverty row interpretato da Chapman To, ha una freschezza d'invenzione e una sfacciataggine da far vergognare tutto il baraccone del cinema italiano. Fosse solo per questo, bisognerebbe distribuirlo!
“Romancing in Thin Air”, la nuova opera del maestro Johnnie To, è uno dei film simbolisti di To, come “Running on Karma”; uno strano film, certo uno dei suoi minori, ma affascinante: parte francamente piuttosto male, ma poi si eleva ad altezze impreviste, a una bizzarra grandezza, con la sua forte carica metafisica concretizzata nell'immagine della foresta che rappresenta la morte e la perdita. Una perla barocca.
“The Bounty” di Fung Chih Chiang è quintessenzialmente hongkonghese nel suo trascorrere da un inizio slapstick a uno sviluppo che, pur restando nel registro della commedia (grande il cameo finale di Michael Hui!), amplia coraggiosamente il suo range di emozioni.
Non mancava il film erotico, con “The 33D Invader” di Cash Chin, pornoparodia fantascientifica indubbiamente piacevole alla visione – non solo per l'aspetto erotico, supportato dalla nudità di splendide attrici giapponesi o taiwanesi (le hongkonghesi non si spogliano volentieri per lo schermo). Di Cash Chin era più bello “The Forbidden Legend – Sex & Chopsticks” (il primo dei due) - ma avercene di questi film, che riportano in auge i fasti appannati della “Categoria III”! Specialmente quanto si pensa a un film opposto non solo per castità ma per valori produttivi (è ricchissimo): il vero turkey (bidone) venuto da HK a fine festival: “The Viral Factor” dell'imbolsito Dante Lam. Sfiora la perversione, spendere un transatlantico di dollari per realizzare un film d'azione così noioso.
La Corea ha aperto alla grande il festival con “Sunny” di Kang Hyun-chul, bellissima commedia sentimentale nostalgica su sette donne, giocata fra presente e passato: scorre su un doppio registro temporale, l'oggi delle donne cresciute e i tempi del liceo per le stesse da adolescenti, avvalendosi quindi di una doppia schiera di bravissime attrici, scivolando dal presente ai flashback con superba fluidità.
Non ho ancora visto il premiato “Silenced” di Hwang Dong-hyeuk. Fra gli altri film, il bellico “The Front Line” di Jang Hun è molto buono, sebbene a volte la sceneggiatura miri all'effettistico; mette in scena un episodio alla fine della guerra di Corea in un reparto di soldati psicologicamente distrutti.
Buono il thriller “Blind” di Ahn Sang-hoon. su una ex poliziotta cieca in lotta contro un serial killer: nel climax, lei fa saltare l'impianto luci in modo che possano lottare “ad armi pari”. Il film rende assai bene l'aspetto materiale, fisico, vorrei dire “quotidiano” della condizione della ragazza, la continua lotta della cecità contro le cose; ma soprattutto (l'aspetto più importante) si pone il problema di rendere la cecità “dall'interno”, nelle scene di lotta, inventandosi notevoli scambi fra il sonoro e il visuale. Non sono cose rivoluzionarie, ma certamente è un bel passo avanti rispetto alla semplice soluzione di mettere in scena un attore/attrice che mima il fatto di non vedere.
“Unbowed” di Chuung Ji-young è un courtroom drama non privo di difetti, ma che nella seconda parte riesce ad avvincere lo spettatore. Soffre dei problemi di una sceneggiatura alquanto mediocre (di Han Hyun-keun e del regista Chung Ji-young). Non solo l'episodio iniziale, su cui si costruisce tutto il dibattito, è narrato confusamente, ma il film non riesce a film costruire un'empatia sui personaggi, e spesso li risolve nella banalità, come la figura dell'avvocato alcoolizzato (ombra di Paul Newman!).
“Punch” di Lee Hin, popolato di figure divertenti, ha molte idee carine (in particolare le preghiere del protagonista a Dio per far morire il prossimo), però bisogna dire che non decolla mai. Invece “Dangerously Excited” di Koo Ja-hong è una graziosa commedia, centrata su un protagonista ben delineato, che esplora il rapporto fra la sicurezza dell'abitudine e l'insicurezza dell'arte – qui la musica rock. Discreta anche la commedia di Park Hun-soo “My Secret Partner”, fanaticamente basata su una serie di rispecchiamenti e geometrie (ma attenzione, siamo comunque lontani da certi capolavori di Johnnie To e Wai Ka-fai) e impreziosita da una serie di scene erotiche finalmente audaci.
Trascurabili invece il laborioso thriller “Moby Dick” di Park In-jae e la modesta commedia sentimentale “Penny Pinchers” di Kim Jeong-hwan. Non si può non menzionare però, parlando della Corea, la meravigliosa rassegna sul cinema coreano degli anni '70 messa insieme dall'esperto Darcy Paquet con una serie di capolavori - cito solo lo sconvolgente “Flame” di Yu Hyun-mok, bello quasi come un Mizoguchi e violento come un Kurosawa.
Poi c'è la Cina continentale (ma non ho ancora visto “One Mile Above”). “The Song of Silence” di Chen Zhuo, un film tutto giocato sulla lentezza e l'immediatezza, mette in scena due storie di donne contrapposte, una sordomuta e una cantante. Sicuramente mostra che l'autore ha molto talento. Ha altresì un difetto proprio delle opere prime: un certo eccesso di consapevolezza - appare a volte insistito, conscio di se stesso, indirizzato troppo visibilmente allo scopo. Vedi per esempio la danza dell'amante/zio sulle note di “Parigi o cara”, tanto più quando viene replicato in stile “falso visibile” felliniano nella sequenza del sogno. Ma non dimentichiamo gli aspetti positivi. La definizione delle due donne (ben interpretate) è umana e sensibile. Il regime del suono, così diverso fra le due storie, è eccellente (nella parte sulla sordomuta i rumori sembrano precipitare e ripercuotersi nel silenzio). La fotografia ha anche soluzioni assai belle: ottimo l'impiego di un campo molto lungo in senso drammatico (la fuga di Jing inseguita dal padre, il finale). Il montaggio fra le due vite alternate è veloce e secco, ma elegante: utile a un film dalla narrazione aerea, allusiva, ellittica. Un film fatto tutto di brevi movimenti che creano un collage di sensazioni.
“The Cockfighters” dell'esordiente Jin Rui è pieno di difetti, ma ha l'interesse di presentare una descrizione agghiacciante della Cina rurale come un inferno dove la brutalità e la prepotenza dei pezzi grossi che dominano protetti dal Partito fanno pensare più al Sud America degli anni peggiori che al paese della retorica rivoluzionaria ufficiale.
“My Own Swordsman” di Shang Jing invece è molto divertente, e sembra un Mel Brooks cinese ambientato nel periodo Ming, con un'iniezione di satira sulla speculazione immobilare.
Se Taiwan delude (il verboso “You Are the Apple of My Eye” di Giddens), magnifiche sorprese arrivano da cinematografie più laterali. Indonesia: Aria Kusumadewa, che l'altr'anno ci aveva conquistati con”Identitas”, ha realizzato una bella commedia acida con “Kentut”. Concetto base: una candidata politica alla vigilia del ballottaggio viene ferita in un attentato, viene ricoverata in ospedale e sarà esclusa dalle elezioni se non riuscirà a scorreggiare, sdegno che si è perfettamente ristabilita. In attesa di questo fausto evento l'ospedale si riempe di religiosi che pregano e di bancarelle – sembra “The Big Carnival” di Billy Wilder. Kusumadewa se la prende con le campagne politiche, la religione, i rapporti uomo-donna, con tutta la società indonesiana, con uno sguardo che sembra quello di un marziano divertito e perplesso (ma non privo, mi pare, di una certa distaccata simpatia per questi terrestri pazzi). Nota in margine: gli italiani, che conoscono bene il Cetto Laqualunque di Antonio Albanese, riconosceranno qualcosa nella campagna elettorale del film.
Dalla Malaysia arriva “Songlap” di Effendee Mazlam e Fariza Azlina Isahak, una sorta di gangster drama molto bello, fortemente umano e allo stesso tempo estremamente netto, senza ombra di sbavature, senza mai sprechi di tempo, con una notevolissima capacità di racconto (l'uso delle ellissi e del non detto - come l'identità del padre del neonato - è eccezionale). Il dialogo è davvero ben scritto (un sito Internet che ho visto citava Scorsese: è esagerato, ma nella direzione giusta) e ben interpretato. Il film ha delle inquadrature eleganti senza essere leccate; che perfino un car chasing nelle strade di Kuala Lumpur sia fotografato con intelligente originalità è il massimo!
La Thailandia era rappresentata quest'anno da un solo film, ma di valore. “It Gets Better”, del/la regista trans Tanwarin Sukkhapisit, incrocia tre storie sulla transessualità con buona capacità narrativa, fantasia ed eleganza. Se l'apertura è puro Almodovar, il film si sviluppa in seguito su vari registri, ben servito da un montaggio di notevole fluidità.
Ho lasciato per ultime le Filippine perché da questo paese vengono due film fra i più interessanti del Festival. “Six Degrees of Separation from Lilia Cuntapay” di Antoinette Jadaone è un eccellente mockumentary che porta sullo schermo nella parte di se stessa (con un bel gioco di specchi e scarti fra la realtà e la figura filmica) Lilia Cuntapay, microcaratterista di film horror. La figura della settantaseienne Cuntapay, presente al festival e commossa fino alle lacrime per gli applausi dopo il film, resterà per sempre nei nostri cuori.
“The Woman in the Septic Tank” di Marlon Rivera (scritto da Chris Martinez) è un piccolo capolavoro di acuto umorismo metacinematografico. E' una riflessione (in toni di commedia) sui vari modi possibili di girare un film drammatico sulla miseria assoluta degli slum di Manila, dove una donna povera vende suo figlio a un pedofilo. Si articola su due linee: è una satira perfino crudele del cinema indie sulla miseria (e ciò nonostante getta anche uno sguardo lucido su di essa); è una dimostrazione semiseria, che davvero andrebbe studiata nelle scuole di cinema, su come la diversità di approccio implichi una diversità di linguaggio.
Sì, perché il divertente non è tanto che vediamo la stessa storia realizzata a ripetizione come dramma realistico, come musical, come filmone star-oriented: è che ognuno di questi modi implica una diversità linguistica (per esempio, nel terzo caso, un'illuminazione più forte, perché si veda bene la star, e un uso più marcato del primo piano). La protagonista, la grandissima attrice comica Eugene Domingo, è sublime più che mai, sia come interprete in più di una versione, sia come interprete di se stessa in forma autoparodistica: la superdiva in una villa lussuosissima che dà ai cineasti (e al pubblico) una meravigliosa lezione, anch'essa semiseria naturalmente, sui vari stili di recitazione.
Considerando che questo è stato il vero film di chiusura del festival (benché seguisse l'insipido “The Viral Factor”), ripensare a questo gioiellino contribuisce a fissare nel nostro spirito un caldo ricordo del quattordicesimo Far East Film.
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