Questo post non vuole essere un semplice sfogo personale, ma – al contrario – servire da stimolo ad un dibattito su un tema a mio modo di vedere fondamentale, nonché troppo spesso assente dai discorsi di tribune elettorali e programmi televisivi. Parlo del mestiere di giornalista, in ogni sua declinazione, e delle contraddizioni elette a norma che lo riguardano.
I punti, più o meno, sono noti: non esiste, ad oggi, un canale di accesso univoco e definito all’esercizio di questa professione.Esistono, nei fatti, vere o presunte “scuole di giornalismo” atte a formare tecnicamente i suoi iscritti, ad insegnar loro il mestiere pratico, che nella migliore delle ipotesi permettono di accedere agli esami per l’iscrizione all’Albo. Questi corsi e master, spesso a numero chiuso e fortemente ridotto, hanno una qualche utilità solo nei (piuttosto rari e costosi) casi in cui prevedono stage in redazioni interessate ad ampliare i propri organici.
Nei fatti, lo stesso Ordine dei giornalisti è un’istituzione anacronistica, corporativista e di utilità dubbia: come sottolineato in diversi casi dalla magistratura, chiunque può collaborare ad una testata anche senza essere iscritto all’Albo. La maggior parte lo fa; molti sono virtualmente costretti dall’approccio relazionale che domina il settore e, in buona sostanza, impedisce di emergere ai più capaci, avvantaggiando quelli che conoscono Tizio, Caio oppure Sempronio. Se per farsi assumere l’importante è avere in curriculum esperienze e contatti giusti, entrare nell’Ordine è l’ultimo dei problemi di chi si affaccia a questa professione.
Bisogna poi considerare di che professione stiamo parlando, nei fatti: orde di giovani, talvolta senza particolari
Per essere assunto, bisogna essere notato. Bisogna aver messo su qualcosa in proprio, aver dato il là a un’iniziativa, aver conosciuto qualcuno o essere entrato nelle grazie di qualcun’altro. Al di fuori di ciò (e al netto di pochi master e stage) il giornalismo rimane un settore off-limits, in Italia. Nel nostro Paese gran parte dei media è arroccata su visioni conservatrici e anacronistiche di un settore che altrove è in perenne evoluzione – com’è lecito e, anzi, auspicabile che sia.
Poco più di due anni fa il direttore del Corriere della Sera De Bortoli inviò questa lettera alla sua redazione, per lamentarsi di quello che considerava un atteggiamento ostracista nei confronti del sito web della testata. Il finale recitava quanto segue:
Non è più accettabile l’atteggiamento, di sufficienza e sospetto, con cui parte della redazione ha accolto l’affermazione e il successo della web tv. Non è più accettabile, e nemmeno possibile, che l’edizione Ipad non preveda il contributo di alcun giornalista professionista dell’edizione cartacea del Corriere della Sera. Non è più accettabile la riluttanza con la quale si accolgono programmi di formazione alle nuove tecnologie. Non è più accettabile, anzi è preoccupante, il muro che è stato eretto nei confronti del coinvolgimento di giovani colleghi. Non è più accettabile una visione così gretta e corporativa di una professione che ogni giorno fa le pulci, e giustamente, alle inefficienze e alle inadeguatezze di tutto il resto del mondo dell’impresa e del lavoro.
La situazione, però, invece che progredire è – se possibile – peggiorata. Come spiegava nel dettaglio un articolo del Post di qualche settimana fa, lo stato del settore versa in condizioni critiche – un po’ per una crisi di carattere sistemico, un po’ per quell’attitudine conservatrice di cui sopra – e le assunzioni sono praticamente bloccate.
Un pezzo odierno firmato da Christian Raimo commenta la breve vita del quotidiano Pubblico, testata diretta da Luca Telese che è uscita in edicola dal 18 settembre al 31 dicembre dell’anno scorso. Il post, oltre a raccontare lucidamente le tappe della chiusura del giornale e le responsabilità dei suoi protagonisti, è anche un amaro sunto delle condizioni in cui chi ama questo mestiere (e quindi, per inciso, vorrebbe poter avere la possibilità di praticarlo) è costretto a battersi ogni giorno. La meritocrazia – posto che sia mai esistita – continua a trovare la sua unica dimensione fra le righe dei proclami elettorali.
Se penso all’imminente Parlamento coi suoi gruppi di partito nuovi di zecca e i giornali che si formeranno o si reinventeranno, giornali per cui bastano due eletti per un finanziamento garantito, mi pongo una semplice domanda: è possibile che per fare un giornale indipendente in Italia si passi o per questa strada o per i soldi di dubbia provenienza, per editori con scadenti qualità imprenditoriali e di dubbia patente liberale? Non si potrebbe dare vita (e soldi quindi) a progetti realmente indipendenti, non legati ad un partito, o non costretti ad attaccarsi per salvarsi dal naufragio al cappio del primo Proto che passa? Finanziamenti consistenti a cooperative giornalistiche, protezioni sociali eque per una categoria di lavoro come quella dei giornalisti dove c’è chi è iperprotetto e chi naufraga nello sfruttamento più vile – sfruttamento che la Riforma Fornero non ha fatto altro che alimentare, eliminando di fatto ogni assunzione, bloccando le collaborazioni continuative, lasciandoci con un immensa montagna di informazione che non lo è in un paese di uomini decisamente poco coraggiosi?
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