C’era un tipo della Silicon Valley simpatico come un mastino che ti ha morsicato al polpaccio (uso un eufemismo). Produceva computer, poi lettori mp3 chiamati iPod, in seguito cellulari definiti iPhone e infine delle robe definite tablet che però lui ribattezzava iPad.
Il suo modo di lavorare era di una semplicità sconcertante. Non badava ai grafici e alle ricerche di mercato: nemmeno li prendeva in considerazione. Diceva che la gente non sa quello che vuole, finché qualcuno non glielo spiega. E lui aveva un modo personale di spiegarglielo.
I critici sghignazzavano, quando il mastino suddetto (abbandonato il polpaccio) presentava i prodotti che la gente (secondo loro), non voleva. Poi scoprivano che li volevano eccome, e pure gli altri, quelli che si affidavano alle ricerche di mercato, perché bisogna assecondare i gusti della gente, ben presto cambiavano rotta.
Domanda: pensate sul serio che la gente sappia cosa vuol leggere? La gente nemmeno sa leggere veramente. Innanzitutto lo vede come un “obbligo” ereditato dalla scuola. Mentre dovrebbe essere un piacere esattamente come per l’atleta è un piacere lasciarsi alle spalle lo starter nella competizione dei 100 metri piani.
Per tutti noi lo starter dovrebbe essere la scimmia che siamo stati: maggiore distanza lasciamo tra lei e noi, meglio è.
Non solo.
Tutto lavora per far credere che in fondo, le scimmie sono animali per bene, solo più pelosi di noi; perciò meglio occuparsi di cose più serie, invece di star lì a consumarsi la vista coi libri.
Secondo me, un autore non solo deve imparare a salvaguardare il disco rigido; re-istallare il sistema operativo (non si sa mai); spiegare alla casa editrice che il formato .odt è meglio di .doc o .docx. Durante la presentazione del libro, parte del suo tempo dovrebbe impiegarlo per spingere i pochi convenuti a fare la pace con la pagina scritta.
Non si dica: “Fatica sprecata, se sono lì è perché già leggono”.
Niente di più folle.
Se scrivere è un apprendistato che dura tutta la vita, leggere non è qualcosa di molto diverso. Spesso chi legge scorre lo sguardo. O si reca alla presentazione perché:
“Ma come, quello sfigato che aveva quattro di italiano ha pubblicato un libro? Proprio vero che ormai pubblicano cani e porci!”.
L’unico mezzo a disposizione di chi scrive per dimostrare che egli non è imparentato con suidi o canidi è… fornire adeguate prove che l’appendice poco sopra al collo contiene materia cerebrale. Per come la vedo io, non c’è altro da fare che spiegare che se la lettura non è la soluzione a tutti i mali, offre il vantaggio di sbarrare la strada ad alcune degenerazioni sociali.
Più che scuole di scrittura, che pure non disprezzo, non sarebbe affatto male creare delle scuole di lettura (e forse già esistono).
Ma la presentazione di un libro non dovrebbe essere la banale cronistoria di come è nato, si è sviluppato, è cresciuto e infine è apparso. Dovrebbe essere l’occasione per svelare cosa c’è nei libri, perché si sceglie di diventare asociali per praticare un mestiere che assicura molte cose, tranne quelle indispensabili per vivere.
La discesa dal piedistallo (dello scrittore), non ne indebolisce l’autorevolezza: anzi. Svelando il potere della parola, la sua capacità di indagare il mistero dell’essere umano diventa ancora più autorevole, e si libera finalmente dell’aurea di divinità che uccide il libro.
Per essere davvero autorevoli, bisogna scendere dal piedistallo e camminare tra le persone, esatto.