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Fare la “Rivoluzione”: distruggere e costruire il “Commonwealth” nel linguaggio politico del Seicento

Creato il 16 novembre 2011 da Ilcasos @ilcasos
Fare la “Rivoluzione”: distruggere e costruire il “Commonwealth” nel linguaggio politico del Seicento

Disegno tedesco raffigurante l'esecuzione capitale di Carlo I Stuart

Dibattiti ed esperimenti

Sveglia Galli: gli inglesi sono arrivati prima. E prima per davvero, di almeno un secolo. Mentre a Parigi vi godevate Mazzarino, loro a Londra ammazzavano il Re. Correva l’anno 1649 e per la prima volta nella storia un sovrano veniva condannato a morte, il 30 gennaio Carlo I Stuart cadeva decapitato e, con lui, precipitava l’idea di uno stato patrimoniale. Quarant’anni dopo in Inghilterra entravano trionfanti Guglielmo III d’Orange e Maria II: gli inglesi avevano fatto la Rivoluzione.
Il cinquantennio di guerre civili che imperversarono nell’isola fra la fine degli anni ’30 del Seicento ed il febbraio ‘89 fu un vero e proprio cantiere per lo sviluppo di nuove categorie del pensare e dell’agire politico moderni. Per definirlo vengono in mente due parole, entrambe comuni nel nostro vocabolario: dibattito ed esperimento.

Cominciamo da dibattito. Non è infatti possibile capire la guerra civile inglese senza fare un passo indietro, almeno di qualche anno, fino al 1628, quando il Parlamento chiese ed ottenne dal giovane re Carlo I Stuart la firma di un documento, la Petizione dei Diritti, che oggi tutti noi ricordiamo per un combinato di disposizioni (art. III) formalmente definiti come Habeas Corpus. La Petition of Rights, inoltre, sanciva il principio del cosiddetto «no taxation without representation» (art. X). In altre parole, il sovrano non avrebbe più potuto legiferare – soprattutto in materia di politica estera, dove i fondi (e quindi l’esazione) sono maggiormente necessari – senza previa consultazione delle Camere. Questo, ovviamente, in una linea puramente teorica, come è rivelato dal fatto che l’anno seguente Carlo I sciolse de facto le Camere, dando avvio ad un politica assolutistica – nel senso originario di svincolata dalla leggi del Reame – sia in materia temporale (l’imposizione dello ship money[1] ne è esempio), che spirituale (leggi come svolta cesaropapista nella politica personale del sovrano e arminianesimo[2] come sistema teologico adottato per supportare questo giro di vite). Il Parlamento non sarà riconvocato fino al 1640, anno di inaugurazione di quello che sarà noto come Long Parliament, per la sua durata di tredici anni, periodo nel quale cadono le cosiddette Guerre civili inglesi[3]. È sempre in questo periodo che la parola dibattito torna a presentarsi come “etichetta” del Seicento inglese: fondamentale rimane infatti per la cultura politica europea quello che si tenne fra il 28 ottobre ed il 9 novembre 1647 in una piccola cittadina a sud di Londra, a Putney, con l’obiettivo di redigere un Agreement of the People, rotta da seguire per il futuro del Paese.

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Cromwell osserva il corpo di Carlo I in un dipinto di Paul Delaroche del 1831

I dibattiti di Putney, documento di fondamentale importanza per ricostruire la genesi dei principi della moderna cittadinanza, si tennero in seno alla New Model Army, o meglio in seno alle diverse fazioni formatesi al suo interno. L’esercito del “Nuovo Modello”, insieme al suo principale ispiratore e leader, Oliver Cromwell, si presentano a loro volta ai nostri occhi come esperimento.

Costituito nel 1645, nell’apice della battaglia contro l’esercito monarchico, questo esercito non fu semplicemente una sperimentazione bellica, ma soprattutto sociale. Figlio della cultura che aveva dato vita alla Petition, l’esercito dei roundheads ricalca l’idea di un esercito regolare con un alto grado di devozione, di commitment. Questo elemento distintivo conseguì la forte connotazione puritana delle sua fila, una devozione che è valsa ai soldati cromwelliani l’epiteto di “Santi”[4]. Esperimento è parimenti considerabile la forma di governo che il suo principale ispiratore e leader (nonché futuro Lord protettore d’Inghilterra), Oliver Cromwell, promosse e diresse all’alba dell’esecuzione di Carlo I nel 1649 – e come non considerare la monarcomachia (letteralmente “lotta al sovrano”, il legittimo tirannicidio) una novità, un’invenzione del barocco inglese? – il Commonwealth. Un esperimento, appunto, una parabola meglio, che sopravvisse in Gran Bretagna tra il 1650 ed il 1660, anno che apre un trentennio di Restaurazione, di ritorno.

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Il Bill of Rights, originale del 1689

Negli ottant’anni compresi fra la Petizione dei Diritti ed il Bill of Rights molte le elaborazioni, le vicende, i protagonisti (ci porterebbe troppo lontano affrontare qui il tema dei Levellers e Diggerscome possibili precursori degli odierni partiti) ma, soprattutto, un’idea che è qui nella sua gestazione e prima concettualizzazione: la Rivoluzione.

Rivoluzione, sanguinosa o gloriosa che sia, non fu nel Seicento e non può essere considerata oggi dallo storico di quell’epoca come categoria “fissa”. Anzi, il significato di questo termine oscilla di autore in autore. È probabilmente questa incertezza, però, a fare dell’uso di questo termine durante le guerre civili inglesi un interessante terreno di ricerca per comprendere quale senso si è dato alla corruttibilità e crisi dei governi, in un’era, quella moderna[5], in cui questi ultimi “cadevano dalle stelle” della rigida società medievale, per calarsi nell’abisso terreno delle cose che cambiano, che si susseguono.

Ricercare questo senso significa in primo luogo rifiutarsi di forzare ciò che noi tutti (i figli della Bastiglia!) intendiamo oggi per Rivoluzione, ed allo stesso tempo evitare le “trazioni agiografiche e teleologiche[6]” (in altre parole di osannare i rivoluzionari inglesi e di vederli come anzianotti progenitori delle rivoluzioni politiche contemporanee). Cercheremo qui di dare una spiegazione a questo lessico “in crisi” concentrandoci su due aspetti indissolubili e fondanti: la religione e la politica. Convinti che in fondo-in fondo verba volant, scripta manent, finiremo con una breve introduzione ad una pubblicazione all’epoca molto nota, ma oggi forse fra le meno conosciute ad opera del filosofo politico più famoso di questo tempo: il Behemoth di Thomas Hobbes (1681).

Il pensiero politico

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Malgrado una certa concezione comune[7], ribellioni, sovvertimenti e crisi dei governi non erano affatto sconosciute ai filosofi politici pre-1688. Al contrario, i greci prima ed i romani poi – c’è da dire, con una certa forma di snobismo rispetto ai movimenti popolari – avevano lasciato in eredità non poche teorie sulla successione nell’autorità politica e sui colpi di stato[8]. Questo testamento ideologico fu prontamente raccolto dall’Italia rinascimentale, patria del pensiero politico moderno classico, che lo collegò con un termine, revolutione, connesso all’astrologia.
Con un occhio strizzato all’idea della circolarità della storia (anche qui, un’altra eredità lasciata dall’anaciclosi di Polibio) e l’altro rivolto alle stelle, nel 1612 e nelle edizioni successive, il Dizionario degli Accademici della Crusca, così descrisse, infatti, la rivoluzione: «Rivolgimento. Ed è più proprio degli stati, che d’altro»[9]. Bando alle ciance scolastiche[10], quindi, e riscoperta dei classici per la politica rinascimentale, che si credette in grado di predire la sorte dei governi attraverso un attento studio della stasis[11].

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Machiavelli (particolare) ritratto da Santi di Tito

Tra gli autori che influenzarono direttamente il pensiero politico inglese del Seicento è necessario citare i nomi di Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini il quale, da interno della politica, fu il primo a denunciare l’inconsistenza del diritto divino teorizzato dalla Scolastica[12]. Nei Discorsi Machiavelli si propose quale celebratore del «tumulto», della contraddittorietà in seno alla società civile e di un rinnovamento necessario nelle repubbliche: «ed è cosa più chiara della luce, che non si rinnovando questi corpi non durano»[13]. La rivoluzione degli stati trovò una definizione differente nel lavoro di Jean Bodin che, osservando la violenza delle guerre civili e di religione del secondo Cinquecento francese, nei Six Livres de la Republique individuò come principio di base per la definizione del momento rivoluzionario il passaggio da un potere sovrano all’altro, dove «chi è padrone della forza è anche padrone del potere»[14].
Abbandonando la struttura mentale del vecchio regime feudale – dove i sudditi disperati si ribellavano spinti dai morsi della fame[15] – e sfondando il portone della politica moderna, il ribelle si vide finalmente attribuite consapevolezza civile e capacità demiurgica degne del suo pronipote: il citoyen di Francia. L’idea di irruzione più o meno violenta e volontaria distruzione dell’ordine precostituito (politico, sociale ed economico) venne così sovrapponendosi alla tesi della rivoluzione fisiologica fra i governi.

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Jean Bodin (1529-1596)

A questo paradigma le diverse correnti di pensiero affibbiarono una vasta gamma di connotati. Primo fra tutti il grado di violenza da intendersi alla Rivoluzione: mentre oggi è data per scontata l’intima connessione della rivoluzione con i riots, moti turbolenti, basti pensare che nel 1688 la Rivoluzione venne salutata come “gloriosa” perché scevra da spargimenti di sangue. E poi, soprattutto, l’idea del futuro – e di conseguenza del presente e del passato – insita nelle diverse congetture della crisi e rivoluzione negli Stati. Sebbene l’idea di progresso – figlia stavolta sì, cari, dei cugini oltremanica (anche se pure in questo campo molto ci sarebbe da dire) – non avesse ancora fatto irruzione nella mente politica moderna, c’era già chi leggeva nella rivoluzione un orizzonte altro e migliore, ma soprattutto, c’era chi vi leggeva la riscoperta di mitiche età dell’oro. Un fantascientifico ritorno dal futuro? Ebbene sì, dal momento che questi passati erano sovente inventati di sana pianta oppure consistevano in riferimenti ai modelli lontani e vicini di rivoluzione e governo, quali la rivolta dei Paesi Bassi contro il dominio spagnolo, e la tradizione della Respublica hebreaorum[16].

Una religiosità radicale

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Permetteteci una piccola incursione nelle Scritture: In principio era il Verbo, ed il verbo era presso Dio. Come possiamo cercare di capire il vocabolario politico moderno se non teniamo conto dello sviluppo di quello religioso? Ciò a maggior ragione nel caso della corona inglese, le cui sfere temporale e spirituale vennero indissolubilmente legate dalla politica del buon Enrico VIII, così come esemplificato dall’Act of Supremacy (1534)[17]. Lasciando da parte il nocciolo duro di queste diatribe[18], però, è qui utile ricordare come la religione influenzò la retorica del discorso politico, i cui protagonisti presero ad identificarsi «by their religious character»[19]. All’epoca dei fatti che qui analizziamo, in altre parole, gli inglesi arrivavano come un caso isolato di confessionalismo, le cui vicende interne, lotte, fazioni e settarismi non hanno molto a che vedere con quanto contemporaneamente avveniva con il luteranesimo ed il calvinismo[20], oppure ancora con le guerre di religione francesi[21].
Perché gli inglesi sono così diversi? Sarà perché non parlano una lingua neolatina … eppure non hanno niente a che vedere nemmeno con i tedeschi ed il Sacro Romano Impero! Il fatto è che il dibattito teologico qui è intrinsecamente legato con le questioni dinastiche e delle autonomie territoriali, in fattispecie quella scozzese e quella irlandese[22]. Questa quaestio si riflesse nello scontro fra le fedi, principalmente quelle anglicana, presbiteriana e cattolica. In particolare gli ultimi, gli odiati papisti, furono sempre accesi animatori del dibattito sulla legittimità del sovrano[23].

Il matrimonio fra politica e religione previde una comunione dei beni, dei temi e della retorica. Così che, ad esempio, la polemica antipapista contro Carlo I implicava, o celava, questioni congiunturali di carattere squisitamente politico ed economico; ed alla stessa maniera l’idea di resistenza al potere temporale del sovrano era dedotta sulla base del passo biblico Deuteronomio 17, 12[24]. Più generalmente, fu il libero esame, grazie al quale qualsiasi persona alfabetizzata era resa in grado di leggere prima manu le Sacre Scritture[25], a far piazza pulita delle categorie dell’obbedienza, che erano state il perno della società medioevale[26]. L’appoggio trovato nei testi sacri (come il passaggio del Deuteronomio[27]), permise alle chiese britanniche di dotarsi di filosofie della morale con dirette implicazioni nell’idee gemelle di obbedienza e resistenza. Il puritanesimo inglese, fulcro delle proteste politiche, per esempio, era di orientamento fondamentalmente casuistico: invitava ogni individuo ad agire politicamente secondo il proprio giudizio, rinnegando l’idea di obbedienze naturalmente (o divinamente) dovute[28].
Questa matrice “mondana” delle chiese riformate, si fece radicale nella dottrina calvinista, particolarmente diffusa nei regni della corona inglese, che si caratterizzava per una «forte emozione sociale ed imponeva sui santi una nuova disciplina impersonale» in maniera che «le energie religiose del credente venissero disciplinate nell’arena pubblica, dirette verso e per mezzo delle forme della religione sociale­»[29].
Una caratteristica particolarmente evidente nel caso della chiesa scozzese, quella presbiteriana di John Knox[30].

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John Knox (1513-1572)

Nelle parole del teorizzatore della «Rivoluzione dei Santi», Micheal Walzer, fu proprio la dottrina calvinista – la confessione adottata dalla chiesa anglicana – a spostare l’enfasi dal sovrano al santo, in maniera da basare su quest’ultimo l’indipendenza dell’azione politica. In altre parole uno shift dalla rigidità dell’ordine, alla mobilità del singolo. Il calvinista era dunque incentivato – se non addirittura obbligato – a partecipare attivamente alla vita pubblica, cosa che il cattolico e l’uomo medioevale in genere non era mai stato abilitato a fare. Questa «enthusiastic and purposive activity»[31] del fedele calvinista, veicolata dall’azione sociale di sette e ministri di fede, contribuirono ad irrobustire la mobilitazione delle masse; in maniera che l’affiliazione religiosa divenne requisito logico della radicalizzazione dei movimenti politici[32].
Gli annunci chiliastici (leggi Arrivo dell’Apocalisse[33]), promossi da alcune di queste sette, produssero uno spostamento dalla visione ciclica della storia rinascimentale ad una concezione lineare della storia, il cui fulcro stava nella venuta dell’Anticristo e la Terza Era dell’Uomo, l’Età dello Spirito di memoria gioachimita[34]. Parimenti, si produsse una immagine teleologica, finalistica di rivoluzione continua in attesa di un nuovo Eden[35].
Il concorso del disegno divino nel dispiegarsi degli eventi divenne un elemento ricorrente nella retorica rivoluzionaria, tanto laica quanto ecclesiastica, come testimoniano le sferzanti formule di chi definisce le “rivoluzioni dei Reami” come «le fruste con le quali Dio sferza i principi che mal si comportano»[36].
In conclusione, citando Thomas Hobbes, è possibile proporre un rapporto fra la cosa pubblica e quella ecclesiologica, si può sostenere cioè

che l’eresia sta al potere spirituale, come la ribellione sta a quello temporale, ed è suscettibile d’esser perseguitata da chi voglia mantenere il potere spirituale ed il dominio sulle coscienze degli uomini[37].

[Bibliografia]

Fonti

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Di seguito si possono trovare i link ad alcune delle fonti primarie citate e utilizzate nella redazione di questo articolo:

  • Petition of Rights (1628)
  • Agreement of The People (1647)
  • Bill of Rights (1689)

Leggi la parte seconda.

Se vuoi leggere di più su come è stato scritto questo articolo, butta un occhio qui.

Note   (↵ returns to text)
  1. Tassa imposta da Carlo I nel 1635 per finanziare gli impegni militari nel continente e pietra dello scandalo alla base di molte controversie.↵
  2. Sebbene entrare qui nel merito del dibattito teologico primo-seicentesco ci porterebbe davvero troppo lontano, è utile spendere un paio di parole sugli arminiani. Questa fede, figlia del calvinismo, deve il suo nome all’olandese Jacobus Arminius (1560-1609) e viene spesso definita con veloci formule quali “semi-pelagianesimo” e “semi-agostinismo”. Ma cosa vuol dire? Si può affermare che il sistema teologico arminiano, sebbene basato al pari della Chiesa Riformata, sulla sola autorità delle Scritture, abbia un’apertura nei confronti della perfettibilità del genere umano sconosciuta al dramma teologico di Calvino (cfr. W.J. Bouswma, John Calvin: a sixteenth Century Portrait, Oxford, 1989. Il biografo di Calvino descrive la teologia calvinista come «ansia» e tensione). L’arminianesimo conobbe famosi seguaci, primo fra tutti il giurista Ugo Grozio (1583-1645), ma soprattutto, per quello che ci interessa, l’Arcivescovo di Canterbury, William Laud (1573-1645), braccio destro di Carlo I. Sotto il nome di “movimento laudiano” l’arminianesimo venne letto nel contesto politico e religioso inglese (in particolar modo dai parlamentari puritani) come un facile scivolo teologico che avrebbe ben presto permesso a Carlo I di riportare il regno nelle braccia della Chiesa Cattolica, di cui la regina, Enrichetta Maria di Francia, era nota fedele.↵
  3. Indicativamente compresa fra il 1642 ed il 1660, la cosiddetta Prima Rivoluzione è a sua volta suddivisibile in tre fasi: a) una prima, che vede i primi sette anni di scontri fra i parlamentari del Lungo Parlamento ed il “partito” del Re, formato da quest’ultimo, membri dell’alta aristocrazia (il Privy Council primo fra tutti) e gli alti prelati della Chiesa Anglicana. Questa prima fase ha come terreno di scontro la politica fiscale di Carlo (v. supra), e come protagonisti i due opposti eserciti reale e parlamentare (nel quale figura di spicco è Oliver Cromwell, v. infra). b) Una seconda fase, che segue l’esecuzione del Re nel 1649 ed abbraccia i primi anni di vita del Commonwealth ai quali seguono c) i cinque anni di governo personale (1653 – 1658) di Oliver Cromwell e quindi i due fallimentari anni di governo dal figlio di quest’ultimo, Richard (1658 – 1659). Il 1660 segna, con la conclusione della parabola repubblicana, il ritorno della casa Stuart a Londra con l’erede Carlo II Stuart. Il regno di Carlo II (1660 – 1685) e del suo successore Giacomo II Stuart (1685 – 1688) sono usualmente definiti come “Restaurazione” e precedono il biennio 1688-89, ovvero la Gloriosa Rivoluzione (v. infra).↵
  4. Il dibattito attorno alla Rivoluzione inglese prese naturalmente le sue mosse sin dai primissimi anni successivi alla Guerra civile corroborando il conflitto tra le antitetiche fazioni allora in campo, i.e. R. C. Richardson, The Debate on the English Revolution, Manchester 1998, p. 11. A questa stagione “calda” seguì una rielaborazione ed appropriazione dell’eredità lasciata dai Padri della patria nell’ottica della scrittura di una tradizione inventata. Per «tradizione inventata» si intende qui quel «insieme di pratiche, solitamente basate su regole apertamente o tacitamente accettate o di natura rituale o infine simbolica, che cercano introiettare alcuni valori e norme comportamentali tramite la ripetizione, che automaticamente implica continuità col passato» formulato da Eric J. Hobsbawm nell’Introduzione al volume miscellaneo E. J. Hobsbawm; T. Ranger (cur.), The Invention of Tradition, Cambridge 1983, pp. 1-14 (traduzione mia). L’uso della parola “Santi” non vuole richiamare all’alone di mitico di certe ricostruzioni della Rivoluzione inglese, bensì al contesto puritano così come definito in M. Walzer, The Revolution of the Saints: a study in the origins of radical politics, Cambridge 1982.↵
  5. «[...] un’altra di quelle sensazionali innovazioni della storia politica del sedicesimo secolo [fu] l’emergere della rivoluzione e dell’ideologia radicale. La rivoluzione come fenomeno politico e l’ideologia come disciplina mentale e morale sono ovviamente entrambe legate alla nascita dello stato moderno», in M. Walzer, The revolution of the saints, op. cit., p. 1 (traduzione mia); la posizione di storici come Lynn Hunt, che guardano al fenomeno politico dagli occhi del linguistic turn, è quella di leggere il linguaggio sociale non solo come un riflesso dei cambiamenti profondi della politica, ma come parte stessa della loro modifica; v. F. Benigno, Revisionismi a confronto, op. cit., p. 47.↵
  6. La storiografia delle rivoluzioni moderne ha vissuto stagioni seguendo le svolte e i cambiamenti politici della storia mondiale. Così, un’ondata di revisionismo storico ha imperversato sull’analisi delle rivoluzioni del passato in seguito alla trasformazione politica e sociale europea del post-1989 (v. F. Benigno, Revisionismi a confronto, op. cit.). L’incongruenza fra il peso del vocabolario politico di allora e l’odierno rende «infatti impossibile stabilire un legame positivo con le grandi trasformazioni rivoluzionarie del passato», M. Ricciardi, Rivoluzione, cit., p. 7.↵
  7. «Viene dato convenzionalmente per assodato che la parola “rivoluzione” abbia acquisito il suo significato politico moderno solo dopo il 1688. Precedentemente essa avrebbe avuto solo un significato astronomico ed astrologico limitato alla rivoluzione dei corpi celesti o ad un qualunque moto circolare completo […] Mi sento di suggerire che la transizione al moderno senso è avvenuta ben prima del 1688», C. Hill, The Word ‘Revolution’, cit., pp. 82-83.↵
  8. G. Pasquino, Rivoluzione in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (cur.), Dizionario della Politica, Torino 2004, pp. 845-854.↵
  9. Nei lemmi del Dizionario, fra gli esempi a supporto delle definizioni troviamo precisamente due occasioni politiche: alla voce rivoluzione, «Veggendo il reame di Francia in tanta rivoluzione» nel campo della revoluzione, prima degli esempi legati ai fenomeni naturali, «G. V. 9. 219. 2. Scampò la città di gran pericolo, e rivoluzione»; al lemma rivoltura «G. V. 11. 82. 2. E con molti danari di que’ del Re d’ Inghilterra, spesi in Fiandra, fece far tutta quella rivoltura, con l’ aiuto de’ Cavalieri di Pisa». Cfr. M. Ricciardi, Rivoluzione, op. cit., pp. 8 e ss.; G. Pasquino, Rivoluzione, op. cit.; I. Rachum, The meaning of Revolution in the English Revolution, op. cit., p. 208.↵
  10. La scolastica, qui intesa come agostinismo politico, si era fatta interprete di una teoria di legittimazione divina dell’ordine politico. Questa posizione è quella esposta da S. Agostino nel De Civitate Dei dove l’ordine della città terrena è in costante tensione verso la perfezione della città celeste. In questo schema, l’ordine divino demanda un’obbedienza «dovuta» (nel senso di naturale e necessaria) alle autorità secolare ed ecclesiastica. Cfr. M. Ricciardi, Rivoluzione, op. cit., pp. 15-17, 20.↵
  11. La stasis, intesa come scontro fra diverse fazioni all’interno della città stato, viene presentata dall’opera di Tucidide come necessaria e determinata, nella sua maggiore o minore virulenza, dalle cogenze e dalle singole manifestazioni della malvagità umana. La perfezione del governo misto e la «pretesa di individuare un criterio di prognosi politica e di neutralizzazione del tempo politico» furono invece i capisaldi del pensiero di Polibio che ebbero maggiore trascendenza (influenza?) sul pensiero politico moderno, (si pensi alla dottrina politica del Machiavelli dei Discorsi) cfr. M. Ricciardi, Rivoluzione, op. cit., p. 14.↵
  12. Ricordate all’inizio della quarta liceo la Scolastica? L’esercito di teologi e filosofi che durante il Medio Evo elaborò, e rielaborò l’ossatura della cultura (alta e bassa) dell’Europa cristiana? Fra le idee propugnate, c’era quella, fondamentale, della natura divina dell’ordine politico, caratteristica che faceva della società per ceti un sistema fisso ed immutabile. Probabilmente, però, è più facile ricordare le critiche che alla scolastica vennero mosse dal XVI secolo in poi, fra le quali l’ormai famosa ironia sui dibattiti tomisti circa il sesso degli angeli. Queste sferzanti condanne, spesso colpevoli di oscurare anche i contributi più originali del periodo, fondarono i contributi “moderni” dei filosofi del pensiero politico, fra i quali i classici italiani ne sono i più illustri esempi.↵
  13. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit. in M. Ricciardi, Rivoluzione, op. cit., pp. 30-31 e ss.↵
  14. Cit. in M. Ricciardi, Rivoluzione, op. cit., p. 36.↵
  15. M. WALZER, The Revolution of the Saints, cit., p. 8.↵
  16. De respublica hebraeorum venne dato alle stampe da Petrus Cuneus nel 1617 e da lì fino alla fine del secolo subì molte riedizioni, nonché traduzioni all’estero.↵
  17. Con l’Atto di Supremazia emanato nel novembre 1534, Enrico VIII sanciva «Sebbene la Maestà del re giustamente ed in modo conforme al diritto sia, e sia da ritenere, il Capo Supremo della Chiesa d’Inghilterra, e così è riconosciuto dal Clero di questo reame nelle sue assemblee [Convocations]; tuttavia, per corroborare e confermare ciò, e per l’accrescimento della forza della religione in Cristo all’interno di questo reame d’Inghilterra, e per reprimere ed estirpare tutti gli orrori, eresie ed altre enormità ed abusi ora e in futuro [...]» (traduzione disponibile su http://bit.ly/sOlvl4).↵
  18. Thomas Hobbes, ad esempio, dedica un ampio passo del Behemoth all’excursus delle vicende spirituali del trono d’Inghilterra dalla vicenda scismatica fino al regno di Carlo I Stuart. Il filosofo le ritiene, infatti, condizioni necessarie dei successivi sviluppi della storia inglese. V. Thomas Hobbes, Behemoth [1681], trad. it., Bari 1997 pp. 14-25.↵
  19. Fra i primi a sottolineare questa vocazione spirituale degli attori politici della Rivoluzione inglese, è stato lo storico Roland Bainton che sostenne l’idea secondo la quale i rivoluzionari inglesi difesero la propria posizione come essa fosse una guerra santa, «crusade». G. Burgess, Religious war and Constitutional Defence: Justification of Resistance in English Puritan Thought, 1590-1643, in R. Von Friedeburg (cur.), Widerstandsrecht in der frühen Neuzeit. Erträge und Perspektiven der Forschung im deutsch-britischen Vergleich, Berlin 2001, pp. 185, 198.↵
  20. Cfr. A. Aubert, P. Simoncelli, Profilo di Storia Moderna, Dalla formazione degli Stati nazionali alle egemonie internazionali, Bari 2004, pp. 99-102. Il carattere politico del dibattito religioso inglese è già stato messo in rilievo dalla storiografia della seconda metà del XX secolo. Fra i vari contributi è qui il caso di ricordare C. Hill, The English Bible and the Seventeenth-century Revolution: Uses of the Bible in 17th-century England, London 1993 e l’opera dello storico inglese e la letteratura a questi contemporanea in F. Benigno, Revisionismi a confronto, cit., pp. 15-16.↵
  21. Vi è stato chi, invece, ha voluto riportare anche la guerra civile inglese nell’alveo delle guerre di religione europee. Cfr. C. Russell, The causes of the English War, London 1990, cit. in Franco Benigno in F. Benigno, Revisionismi a confronto, cit., p. 39; ed anche la versione di John Morrill della rivoluzione puritana come «England’s last war of religion», cit. in G. Burgess, Religious war and Constitutional Defence, op. cit., pp. 185-206.↵
  22. Il problema della comunità e del localismo è stato dibattuto nella storiografia sulla rivoluzione inglese. V. F. Benigno, Revisionismi a confronto, cit., pp. 34, 40-42.↵
  23. Quando il dibattito si era già fatto sostenuto all’approssimarsi del giro di boa degli anni ’40 del Seicento, anche la polemica da parte dei puritani si basò in molti punti su critiche religiose più che temporali. Cfr. G. Burgess, Religious war and Constitutional Defence, op. cit., p. 188.↵
  24. Il passo cui si fa riferimento è quello nella traduzione inglese utilizzata da Hobbes nello studio degli umori popolari cause della guerra civile: «E se qualcuno per orgoglio, rifiuterà d’obbedire al comando del prete che, in quel tempo, amministrerà il culto dinanzi al Signore Dio tuo, quell’uomo verrà, per sentenza del giudice, messo a morte», in Thomas Hobbes, Behemoth, op. cit., p. 9.↵
  25. Per l’uso delle Sacre Scritture nel dibattito pubblico inglese del Seicento vd. il fondamentale contributo di C. Hill, The English Bible and the seventeenth century revolution, op. cit.↵
  26. C. Hill, The English Bible and the seventeenth century revolution, op. cit., p. 27.↵
  27. Un altro passo utile è Ezechiele 21:27, in cui il «Principe d’Israele» è costretto a deporre la propria corona per l’ira del Signore che gli intima «Devastazione, Devastazione, io la compirò. Ed essa non sarà più restaurata, finché non verrà colui a cui appartiene il giudizio e al quale io la darò». Cfr. C. Hill, The English Bible and the Seventeenth century revolution, op. cit., p. 245.↵
  28. La casuistica, da casus, è un ragionamento basato sulle contingenze. Applicato alla morale, prevede un’etica basata sul singolo caso; la casuistry vide molti impieghi nella storia della filosofia morale, dai classici (Aristotele) fino alla storia più recente. Per quanto concerne la sua applicazione alla dottrina puritana e le conseguenti implicazioni nelle vicende del discorso politico inglese cfr. G. Burgess, Religious war & constitutional Defence, cit., pp. 186-189.↵
  29. «highly collective emotion and it imposed upon the saints a new and impersonal discipline […] the religious energies of the believer were publically disciplined, directed into and through the forms of the … social religion» Cfr. M. Walzer, The Revolutions of the Saints, op. cit., pp. 12, 25; è interessante notare come le diverse frange religiose compartirono la medesima idea di essere un popolo eletto, «chosen nation and chosen people», i prescelti per compiere il volere divino, dal quale si sentivano legittimati. Cfr. C. Hill, The English Bible and the seventeenth century revolution, op. cit.↵
  30. L’organizzazione della chiesa presbiteriana, figlia della riforma calvinista, è basata sui concetti di sinodo e comunità. Nucleo della chiesa presbiteriana è infatti l’anziano, presidente della comunità territoriale che lo ha eletto in assemblea. Questo organismo partecipa ad assemblee regionali, a loro volta raccolti in sinodi, ovvero assemblee di portata generale. Le chiese presbiteriane si videro sin dalla loro origine in antitesi con quelle episcopaliste (io qui metterei direttamente “episcopali” in quanto comunque, anche se non cattoliche, le diverse chiese trutturate gerarchicamente fanno direttamente uso del termine vescovo/episcopo come capo direttivo della vita civile e religiosa delle comunità) di matrice principalmente cattolica, che all’idea presbiteriana di assemblea oppongono quella di un clero organizzato. Questa diversa accezione di chiesa avrà un ruolo di primo piano nei conflitti contro Carlo I ed il suo entourage al quale i presbiteriani, in particolar modo gli scozzesi, criticarono proprio le derive nel senso di una gerarchia “papista”.↵
  31. M. Walzer, The Revolution of the Saints, op. cit., p. 12.↵
  32. Il confronto ecclesiologico fra le principali chiese moderne, cattolica, luterana e calvinista, meriterebbe un discorso a parte. Brevemente, come si è evidenziato già nel testo, la chiesa cattolica, contrariamente alle due riformate, propugnava il disprezzo per le cose del mondo. Il pensiero politico calvinista – che si risolverà in esperimenti teocratici – è al contrario basato sull’azione mondana della comunità e prevede un connubio fra cosa pubblica e parola divina fuori dall’etichetta della morale. Cfr. M. Walzer, The Revolution of the Saints, op. cit. In una frase, ecco l’importanza del calvinismo per le vicende politiche inglesi: «Lì dove l’ordine laico poteva solo reprimere la natura, la religione poteva al contrario trasformarla» («Whereas the secular order could only repress nature, religion could transform it») in Ibidem, p. 47.↵
  33. Queste tensioni saranno poi condannate da Hobbes nella persona delle sette millenariste. L’Inghilterra del primo Seicento vide infatti una forte diffusione di queste frange religiose, che divennero capillari sul territorio e si fecero megafono non solo di eresie ecclesiologiche ma anche di idee politiche eterodosse. Nominalmente, questo è l’elenco dei «nemici che insorsero contro Sua Maestà, partendo dall’interpretazione privata della Scritture», fornito da Hobbes nel primo dialogo del Behemoth: a) Presbiteriani, «ministri di Cristo» e pastori nelle proprie parrocchie; b) Papisti, fautori del potere temporale del trono di Pietro; c) Indipendenti, sostenitori di un radicale pluralismo confessionale; d) Anabattisti, che rinnegavano il battesimo degli infanti; e) Quintomonarchisti, setta di vera ispirazione chiliastica che viveva in attesa della venuta del regno di Cristo; f) Altre sette di minori dimensioni come quaccheri ed adamiti. Cfr. Thomas Hobbes, Behemoth, op. cit., p. 7.↵
  34. Thomas Hobbes, Behemoth, op. cit., p. 83.↵
  35. Fra gli esempi di questa tendenza è certamente da prendere in considerazione l’annuncio del millenarista John Canne, che nel 1655, predisse «grandi cambiamenti e rivoluzioni, sia nelle persone che nelle cose» («great changes and revolutions, in respect both of persons and things») nel momento in cui il Signore sarebbe finalmente apparso «scuotendo la terra e rivolgendo le corone ovunque in Europa» («shaking the earth and overthrowing the thrones of kingdoms everywhere in Europe»), citato in C. Hill, The Word ‘Revolution’, op. cit., p. 91.↵
  36. «rods with which God scourages miscarrying Princes» La citazione è dal futuro arcivescovo di Canterbury; William Sancroft, Modern policies taken from Machiavel, Borgia and other choice authors, London 1653, cit. in I. Rachum, The meaning of Revolution in the English Revolution, op. cit., p. 204, ma altri esempi possono essere tratti, come per citarne uno che va in senso opposto (auspicando una svolta laica degli eventi politici), l’augurio dello scienziato Boyle di una «rivoluzione, nella quale il Divino sarà lo sconfitto e la vera Filosofia la vittoriosa» («revolution, whereby Divinity will be a loser and real Philosophy flourish»), citato C. Hill, The Word ‘Revolution’, op. cit., p. 89.↵
  37. Thomas Hobbes, Behemoth, op. cit., p. 13.↵
    1. F. BENIGNO, Revisionismi a confronto, in F. BENIGNO, Specchi della Rivoluzione. Conflitto e identità politica nell’Europa Moderna, Roma 1999, pp. 3-59.
    2. G. BURGESS, Religious war and Constitutional Defence: Justification of Resistance in English Puritan Thought, 159 1643, in R. VON FRIEDEBURG (ed), Widerstandsrecht in der frühen Neuzeit. Erträge und Perspektiven der Forschung im deutsch-britischen Vergleich, Berlin 2001, pp. 185-206.
    3. M. CARICCHIO, Religione, politica e commercio di libri nella rivoluzione inglese:  gli autori di Giles Calvert 1645-1653 Genova 2003.
    4. C. HILL, The Word Revolution, in C . HILL, A nation of change and novelty: radical politics, religion and literature in seventeenth-century England, Oxford 1990, pp. 82-101 .
    5. C. HILL The English Bible and the seventeenth century revolution, London 1994.
    6. E. HOBSBAWM, Introduction. Inventing traditions, in E. HOBSBAWM,T. RANGER, The Invention of tradition, Cambridge 1983 (trad. it. di E. Basaglia, L’invenzione della tradizione, Torino 1983), pp. 1-14.
    7. G. PASQUINO, Rivoluzione, in N. BOBBIO, N. MATTEUCCI, G. PASQUINO (edd), Dizionario della Politica, Torino 2004, pp. 845-854.
    8. I. RACHUM, The meaning of Revolution in the English Revolution, in «Journal of the History of Ideas», 56, 1995, n°. 2, pp. 195-215.
    9. M. RICCIARDI, Rivoluzione, Bologna 2001.
    10. R. C. RICHARDSON, The Debate on the English Revolution, Manchester 1998.
    11. M. WALZER, The Revolution of the Saints. a study in the origins of radical politics, Cambridge 1982 (trad. it. di M. Sbaffi Girardet, La rivoluzione dei santi. il puritanesimo alle origini del radicalismo politico, Torino 1996).

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