“Qualsiasi cosa io sia, qualsiasi cosa il mio lavoro significhi, deve venir fuori dal mio inconscio. Non posso avvicinarmi a un soggetto in modo cerebrale. Ovviamente, questo è giusto e valido per me. Ognuno deve avvicinarsi ai problemi nella maniera che ritiene più opportuna. Io non so come scegliere il lavoro che fa luce sulla mia vita. Non so cosa sia la mia vita e non la esamino. La mia vita si definisce da sola, mentre la vivo. I film si definiscono da soli, mentre li faccio. Se il tema mi interessa in un dato momento, è già un motivo per mettermi al lavoro. Forse, il lavoro stesso è la mia vita.”
Cinquant’anni di esperienza condensati in un libro, Fare un film (edito da Minimum Fax), basato su consapevolezza e passione, ancor prima che sull’abilità; anni d’incontri, di scontri, di amori, di blocchi, perché l’arte del cinema è fatta anche di questo, di intoppi improvvisi e di alternative efficaci che aprono ad altre soluzioni. Il regista di Quinto potere, Sidney Lumet, accompagna il lettore in tutte le fasi della lavorazione di un film: dalla sceneggiatura – attraverso il rapporto con gli sceneggiatori – alla pre-produzione, dalle riprese – con tutte le problematiche di natura tecnica – alla post-produzione, al rapporto con gli attori, con il direttore della fotografia ed elementi sparsi sulla scenografia, i costumi, la colonna sonora, fino al montaggio, alla distribuzione e all’attesissima uscita in sala.
Il testo è introdotto, anche nella versione italiana, dalla prefazione di Ethan Hawke, attore, regista e scrittore, ammiratore di Sidney Lumete co-protagonista del suo ultimo capolavoro, Onora il padre e la madre. Sin dalle prime parole di Ethan, ad emergere è l’assoluta professionalità ed umanità di uno dei più grandi e prolifici registi americani (ha realizzato 45 film tra il 1957 e il 2008), che non ha mai seguito un unico e invariabile metodo, ma che ha piuttosto adattato la sua idea di cinema ad un disegno più vasto, un approccio quanto più vicino alle esigenze degli artisti e dei collaboratori che di volta in volta si sono ritrovati a condividere un set con lui.
“La prima decisione, ovviamente, consiste nel fare o meno il film. Non so come decidano gli altri registi. Io decido d’istinto, molto spesso già dopo la prima lettura del copione. In certi casi il risultato è stato positivo, in altri decisamente negativo. Ma è il metodo che ho sempre adottato, e ora sono troppo vecchio per cambiarlo. La prima volta che leggo un copione non lo analizzo. Mi lascio trasportare” confessa, mentre il lettore si sente già trasportato dalla sua maniera confidenziale e vera di analizzare la sua vita sui set della sua vita, la sua carriera di cineasta, in braccio e a cavallo di film di diverso genere, di fare anche autocritica, da parte di un regista di alto livello che ha diretto film passati alla storia come La parola ai giurati, L’uomo del banco dei pegni, Serpico, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Quinto potere su tutti.
“Le ragioni per cui si accetta di fare un film sono molte. Io non sono uno di quelli che aspettano il materiale «meraviglioso» che darà vita al «capolavoro». Quello che è importante è che la storia mi coinvolga personalmente a qualche livello. E i livelli variano. Il lungo viaggio verso la notte è il massimo in cui si possa sperare. Quattro personaggi che interagiscono e non lasciano nessun aspetto della vita inesplorato”; da questo commento si evince invece che una delle sue storie preferite era quella adattata e diretta dallo stesso regista nel 1962, tratta dalla pièce di teatrale di Eugene O’Neill. Nella mente di Lumet non può non rimanere impressa anche l’impressionante performance attoriale di Al Pacino in quello che è forse il suo massimo capolavoro, Quel pomeriggio di un giorno da cani, che descrive come una delle lavorazioni più faticose della sua lunga carriera.
Il film fu girato all’interno di un grande supermercato in disuso ricostruito e adattato a banca, location principale della storia, di cui Lumet essenzializza il significato con una frase: “I mostri non sono quei mostri che noi crediamo siano. Siamo molto più vicini ai comportamenti più osceni di quanto noi stessi possiamo immaginare o ammettere”, perché “Una volta deciso di fare un film, qualunque sia la ragione, per me ricomincia quella difficile analisi che travolge tutto il resto: «Di cosa parla questo film?» Il lavoro non può avere inizio finché questi limiti non vengono definiti, ed è il primo passo dell’intero processo. Diventa il letto del fiume dentro il quale verranno incanalate tutte le decisioni successive”.
“So che in tutto il mondo ci sono dei ragazzi che si fanno prestare soldi dai parenti e che risparmiano il più possibile per comprarsi la prima cinepresa e fare il primo film da studenti, alcuni di loro con la speranza di diventare ricchi e famosi. Alcuni però sognano di trovare quello che per loro ha davvero importanza, e di dire a se stessi e a quelli che li ascoltano: Mi sta a cuore”. Un genere d’incentivazione che Lumet ha nel sangue, come quando al cospetto di un gigante come Marlon Brando, in difficoltà nel ruolo di Valentin Xavier nel film Pelle di serpente, riesce a trovare la traccia giusta attraverso le sue parole e il suo metodo, per farlo sbloccare da una frase su cui s’impuntava sempre, anamnesi di un trauma puberale.
“Per chiunque voglia fare il regista ma non abbia ancora fatto un solo film, non c’è nessuna decisione da prendere. Qualunque sia il film, qualsiasi siano gli auspici, qualsiasi siano i problemi, se si presenta un’opportunità di dirigere, la si afferri. Punto. Punto esclamativo! Il primo film si giustifica da sé, perché è il primo film”. Assolutamente, verrebbe da dire a chiunque abbia intenzione di introdursi nell’affascinante e magico mondo del cinema.
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