Farfalle a Tunisi

Da Blanca Persaltrove

1 (ambientato nell’estate del 1985)

Il quartiere era silenzioso e il sole del pomeriggio filtrava dalle persiane accostate, gettando i suoi raggi contro la parete. Il caldo sembrava insopportabile agli adulti, che costringevano i bambini in casa e Tarek, dodici anni ancora da compiere, non sopportava quell’obbligo che lo relegava nella stanza spoglia assieme ai fratelli minori, ma era costretto all’ubbidienza.
Seguendo il pulviscolo con le dita, attendeva il canto del muezzin per fare merenda e uscire a giocare. Guardò la sorellina di tre anni, Malika. Aveva le ciglia abbassate sulle guance rotonde e si stringeva alla copertina preferita. Non aveva voluto dormire con la mamma nella stanza accanto, preferendo i fratelli che adorava, e ora stava raggomitolata contro Neder, quell’asino di otto primavere, che dormiva a bocca aperta, dopo aver pianto e strepitato per non fare il riposino.
Tarek udì il fruscio delle vesti della mamma, che finalmente si coricava, così attese qualche minuto e si arrischiò ad alzarsi. Il lento movimento del ventilatore gli solleticò le gambe snelle, mentre con passi felpati raggiungeva il cortile interno della casa. La mamma aveva appena finito di gettare l’acqua sul pavimento lastricato e piastrelle lucide erano fresche, sotto le piante dei suoi piedi. Con lentezza si diresse alla scala della terrazza e, sempre con movimenti furtivi, infilò il braccio fra i vasi accatastati, per recuperare il barattolo che aveva nascosto.
«Che stai facendo?», abbaiò suo fratello maggiore, scostando la tenda che schermava l’uscio della cucina. Tarek per poco non fece scivolare il vasetto avvolto in uno straccio: «Niente…», rispose, ma quello già non lo ascoltava più, pettinandosi allo specchietto appeso al chiodo vicino al bagno. Stava per uscire, si capiva dal deodorante che ammorbava l’aria attorno a lui. Tarek amava i profumi ma preferiva immensamente quello della mamma, quando tornava dall’hammam.
Il fratello fece scattare la serratura del portoncino di ferro.
Immediatamente la voce squillante della mamma, rompendo la calma del pomeriggio, si sincerò che fosse il primogenito: «Karim?»
«Sto rientrando, ma’…!», la rassicurò quello, e invece uscì.
Tarek sbirciò dalla finestra della mamma, lei aveva richiuso gli occhi con un sospiro. Karim aveva diciotto anni ed era il suo favorito ma non le ubbidiva mai, e spesso la faceva piangere.
Silenzioso come prima, il ragazzino proseguì verso la cameretta in fondo, sedette sul lettuccio e, liberatosi dallo straccio, scrutò il barattolo di vetro: le farfalle stavano immobili.
Tolse l’elastico che fermava il pezzo di giornale bucherellato messo a coperchio e le liberò nella stanza fresca e in penombra, e quelle si posarono sulle tende dopo un breve volo, sbattendo lentamente le ali intorpidite. Erano cinque, grandi come mezzo palmo, due bianche come il latte e tre colorate come vestiti della festa. Dopo un’esitazione presero a volare per la stanza, danzando nella luce filtrata, gettando ombre sul viso del giovane che, contemplandole con il suo sguardo serio, nascondeva dentro di sé i propri pensieri.
Tarek era ciarliero con gli amici e i famigliari, per qualcuno addirittura un buffone, ma nascondeva dentro di sé laghi profondissimi che nessuno aveva mai raggiunto. Come un pozzo, il suo cuore celava ogni dolore, dispiacere o ingiustizia, e il suo sorriso metteva a tacere qualsiasi protesta. Era buono, Tarek.
In quel momento pensava a ciò che sarebbero servite le farfalle. Non era certo che lo stratagemma funzionasse, ma provarci non costava nulla. Lui e Chiheb, il suo migliore amico, avevano appuntamento con altri tre alla collina, per metterlo in pratica, ma ancora non si alzava il richiamo dalla moschea che liberava i ragazzi dal supplizio della reclusione pomeridiana! Alzandosi accostò il barattolo alle ali variopinte e i magnifici insetti si lasciarono imprigionare nuovamente. Le nascose sotto il letto.
Contravvenendo alle regole di casa, Bouby, il suo cagnone color crema che di solito sonnecchiava in terrazza, spinse il muso contro l’uscio entrando nella stanza. Tarek affondò le braccia nel collo dell’animale, beandosi del suo calore, e quello lo ripagò con una leccata sull’orecchio che il ragazzino si affrettò a ripulire con il dorso della mano. Quando Bouby prese ad annusare l’aria scodinzolando in modo festoso e comunicandogli la voglia di giocare insieme, Tarek lo spinse fuori raggiungendo il rubinetto esterno.
La mamma era in cucina e stava preparando il thè. Il ragazzino le andò accanto e la cinse con il braccio lungo e magro, ormai la circondava tutta. Lei gli disse distrattamente di lavarsi la faccia ma non lo allontanò dal proprio fianco, carezzandogli i morbidi riccioli scuri dai riflessi ramati.
Bussarono. Due tocchi brevi alla lamiera della porta: era il segnale di famiglia.
Dalle scale intonacate Bouby diede un’abbaiata, spiando fuori dalle decorazioni in cemento del muro di cinta. La mamma fece segno a Tarek di andare e lui corse ad aprire al fratello già di ritorno.
Quale sorpresa quella figura slanciata e magra, carica di fagotti, ombra stagliata contro la caligine del cielo! Dopo un secondo di sgomento, contendendosi lo spazio con il cane, Tarek si slanciò verso il papà, tornato a casa dopo molti mesi di lavoro. Quale gioia quella stretta forte che gli mancava tanto!
Mentre baba entrava abbracciando la mamma e il muezzin chiamava alla preghiera, Tarek corse a prendere il barattolo, dimentico ormai degli amici e dell’esperimento in programma, e ridendo liberò le preziose farfalle in cortile, in segno di festa, gioendo nel vederle danzare attorno alle spalle dei suoi genitori.

(continua…)

Sebbene abbia cercato dei nomi con pronuncia letterale,
ricordo che in arabo molti termini si scrivono alla francese,
quindi Bouby si legge Bubi
e Chiheb si promuncia Sciheb

immagine tratta dal film Halfahouine – Asfour Stah (1990)


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Tag: Chiheb, child, Farfalle a Tunisi, memories, Racconto, story, Tarek, Tarek e Chiheb, true story, tunisi, Tunisia

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